La tana del serpente bianco

La tana del serpente bianco

di

Il nome di Bram Stoker, di cui il prossimo aprile ricorrerà il centodecimo anniversario della morte, è indissolubilmente legato a Dracula. Eppure dall’ultimo dei suoi romanzi, pubblicato nel 1911, Ken Russell trasse nel 1988 La tana del serpente bianco, racconto di devozione verso il male e di corpi posseduti che in mano al regista de I diavoli e Stati di allucinazione si trasforma in un pastiche ultra-pop che gioca con il chroma key e si lancia in un sabba infernale blasfemo e irriverente. La catatonia richiesta agli attori in scena non fa che moltiplicare il livello di astrazione di un divertissement che sembra, molto più del “Verme di Lambton”, provenire da un’altra epoca.

Snakes and Ladders

Angus è un laureando in archeologia scozzese che per scrivere la sua tesi di laurea soggiorna nel Derbyshire nel bed and breakfast gestito da due sorelle rimaste orfane da un anno. Durante i suoi scavi amatoriali Angus trova uno strano teschio fossile che non sembra appartenere a nessun animale conosciuto. Nel frattempo una misteriosa donna soccorre un poliziotto dopo che questi è stato morso da un serpente, casistica assai rara in inverno… [sinossi]

Snakes and Ladders, in italiano Scale e serpenti, così si chiama un gioco da tavola molto diffuso in Inghilterra e nei paesi del Commonwealth britannico, una sorta di Gioco dell’oca dal percorso costruito però con una struttura bustrofedica; un tipo di forma che in qualche maniera sembra adattarsi alla mancanza di linearità espressiva di Ken Russell, che ne utilizza un tabellone in modo ironico ne La tana del serpente bianco, un film che serpenti – e in qualche modo anche scale, visto che la speleologia è parte integrante della narrazione – ne mette in scena parecchi, di ogni forma e dimensione. Serpenti naturali, come quelli che si potrebbero incontrare in una passeggiata campestre, innaturali, come gli uomini e le donne serpente che non hanno nulla di diverso dagli altri cittadini del Derbyshire, non fosse per dei canini aguzzi, lunghissimi e ricurvi e per la capacità di sputare veleno, e serpenti super-naturali, come il “verme” (sull’etimologia di worm, che non deve rimandare ai piccoli invertebrati, discetta con fare formale il nobile James D’Ampton interpretato da Hugh Grant), vera e propria divinità dell’oscuro che spinge i suoi adepti a voler sacrificare sangue di vergine – come da tradizione – in suo onore. La tana del serpente bianco, in originale The Lair of the White Worm, uscì nelle sale britanniche nel settembre del 1988, e non venne accolto con particolare favore dalla critica. Dopo L’ultima Salomè i rapporti tra Russell e il mondo esterno divennero ancora più complicati: in questo senso La tana del serpente bianco può essere addirittura letto come un punto di non ritorno, cui seguiranno gli ancora meno apprezzati La vita è un arcobaleno e Whore (puttana), dopo i quali arriverà solamente il tardo The Fall of the Louse of Usher nel 2002.

In effetti l’impressione che si riceve nel rivedere La tana del serpente bianco, adattamento assai libero dell’ultimo romanzo pubblicato da Bram Stoker nel 1911, un anno prima della sua morte, è quella di aver assistito a un prodotto figlio di un’epoca lontana, molto più arcaica del “Verme di Lambton”, o delle monete dell’età romana che il laureando in archeologia Angus trova scavando nel giardino del bed and breakfast di cui è ospite, proprio accanto a un mostruoso teschio di un animale sconosciuto. Un drago forse, come quelli su cui si basa l’intera mitologia britannica e dapprima norrena (San Giorgio, ma anche e soprattutto il mostro alato contro cui combatte Beowulf) e che pare un tempo vivesse in quelle zone, ucciso da un avo della nobile casata dei D’Ampton. Russell, nel pieno dell’epica fantasy degli anni Ottanta, dà vita a una creatura ibrida, mostruosa perché inafferrabile, e destinata in gran parte a non essere capita. L’atonalità quasi assoluta delle interpretazioni, ad esempio – in tal senso paradigmatica la sequenza in cui Hugh Grant, che veste i panni del rampollo dei D’Ampton, taglia a metà con uno spadone un’adepta del Serpente Bianco, per poi restare imperturbabile a osservare i due lembi del fu essere muoversi in modo spastico sul pavimento –, spinsero i più a considerare il film il frutto di un amatore, più che di un auteur.

Ed è proprio qui, nella totale nonchalance con cui Russell si permette ogni tipo di libertà, che risiede la forza – e anche l’assoluta non aderenza al mondo d’oggi – del film. Un horror? Può essere, ma che non ha alcuna intenzione di far paura. Una commedia? Sicuramente il grottesco gronda dalle pareti della messa in quadro, ma anche in questo caso è difficile che si possa trovare davvero divertente l’assurda storia allestita. Cosa resta allora, de La tana del serpente bianco? La ridefinizione del concetto di immaginario, che sfonda il muro del chroma key per muoversi in territori prossimi alla videoarte, espandendo i confini della logica cinematografica: le varie allucinazioni che colpiscono di volta in volta i personaggi che entrano in contatto con il veleno della donna-serpente sono la deflagrazione di un kitsch che non teme nulla e nessuno, una blasfemia nel corpo del cinema “serio” (e anche una blasfemia religiosa, si veda la lunga sequenza dello stupro di massa delle suore da parte di centurioni romani mentre il Cristo crocefisso viene molestato da un vermone bianco), come se Derek Jarman venisse posseduto da un regista di b-movie in pieno deliquio lisergico. Come lo sputo sul crocefisso attaccato al muro da parte della conturbante Amanda Donohoe, così il film di Russell prende gli stilemi dell’horror ottocentesco a pochi passi dal gotico per eviscerarlo completamente, in una sarabanda orgiastica e fallocentrica che manda a carte quarantotto la postura borghese – e aristocratica – britannica. Solo in un sabba ultra-pop e dominato dal cattivo gusto si può trovare la libertà, in un’epoca che nasconde dietro la facciata liberale il volto putrescente del puritanesimo. Sarà difficile che un pubblico abituato a un immaginario sempre più standardizzato, che delimita i confini dell’accettabile possa davvero rivalutare negli anni a venire La tana del serpente bianco, opera quasi astratta nella sua totale negazione del tempo presente e della forma abituale. Resta però un gesto d’insubordinazione a suo modo sublime.

Info
La tana del serpente bianco, trailer.

  • la-tana-del-serpente-bianco-1988-ken-russell-01.jpg
  • la-tana-del-serpente-bianco-1988-ken-russell-02.jpg
  • la-tana-del-serpente-bianco-1988-ken-russell-03.jpg
  • la-tana-del-serpente-bianco-1988-ken-russell-04.jpg

Articoli correlati

Array