Medea

Mito e Storia. Mistero e Ragione. Sacro e Coscienza. Sviluppato intorno ad assoluti ontologici, Medea di Pier Paolo Pasolini riflette sul conflitto tra uomo antico e uomo moderno, sullo sfondo ideologico/allegorico della schiacciante omologazione operata dalla coscienza, che spazza via ogni possibilità di incanto del mondo. Con Maria Callas, alla sua unica esperienza cinematografica.

Tutto è santo

Incaricato di condurre gli Argonauti in Colchide per recuperare il Vello d’Oro, pelle di un caprone dalle facoltà taumaturgiche, l’atletico Giasone induce la sacerdotessa Medea a rubare il feticcio per lui e a seguirlo a Corinto. Travolta dalla passione per Giasone, Medea cede alla proposta gettando la sua comunità originaria nel caos una volta privata del suo oggetto di culto. Dopo dieci anni, Medea e Giasone hanno messo al mondo due figli ma la loro unione traballa. Giasone si è innamorato della giovane Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto, ed è determinato a sposarla per arricchire il proprio prestigio sociale. Torturata dal dolore per l’imminente perdita del suo uomo, Medea cova sentimenti di terribile vendetta e medita di riscoprire la propria antica sapienza di maga… [sinossi]

«Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tienilo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito». Nella frattura dell’unità perfetta garantita dal rapporto dell’uomo antico con il mondo circostante risiede il nucleo fondante di Medea (1969) di Pier Paolo Pasolini. Risiede in realtà anche nell’origine della tragedia, laddove il disperato tentativo di far ricongiungere i bordi di quella frattura si delinea per desiderio inesausto e insaziabile, inevitabilmente condannato alla sconfitta. Finisce l’uomo antico, inizia l’uomo moderno. Finisce il mistero, inizia la ragione. Finisce il Mito, inizia la Storia. Se la sostanza del Mito è ontologica e assoluta, essa trova una propria reincarnazione anche nell’uomo moderno degli anni Sessanta, fulgido decennio di sviluppo e benessere, giunto ormai al termine nel 1969 di Medea e dunque probabilmente foriero di una decisiva presa di coscienza su quanto esso stesso ha significato. Fine del mistero, presa di coscienza. L’uomo moderno di quegli anni è l’uomo-massa, che sulla scorta di una progressiva fiducia totale nella scienza, nella conoscibilità razionale e nel progresso, mira ad abbandonare ferocemente qualsiasi fascinazione misteriale nei confronti dell’oggetto. In reazione a cotante derive, la polemica pasoliniana è sempre stata fieramente regressiva. Recuperare tempi e spazi lontani per ridar loro peso specifico e sostanza, per scagliare ulteriori strali contro la schiacciante omologazione, ormai rintracciabile a ogni livello della stratificazione sociale, innescata dal simulacro del progresso tecnocratico. Regredire e cercare gli ultimi brandelli di sacro significa dedicarsi alle borgate sottoproletarie e al loro prezioso impasto linguistico. Significa ripercorrere il primigenio poverismo del Vangelo. Significa risalire anche al Mito, al rapporto sincretico e simbiotico tra Uomo e Natura, dove di fatto le due entità non esistono in forma singolare e dove ancora non si sono manifestate la razionalità e la coscienza. Con l’atto di coscienza si spengono la poesia, il sacro, il divino. Per il Pasolini di Medea ciò avviene a livello macro- e microstrutturale. Pertiene alla storia dell’uomo come entità sociale e come individuo. Se l’età del Mito trova idealmente una sua conclusione con l’ingresso nella Storia, così il singolo essere umano abbandona l’infanzia (preistoria dell’individuo, età della poesia) verso l’approdo alla ragione. Il Centauro è doppio. Il Centauro perde le zampe di cavallo, elemento onirico e immaginifico, acquisendo un paio di rassicuranti gambe umane.

Appartenente alla tradizione dei miti greci, la storia di Medea ha trovato la sua più nota incarnazione nell’omonima tragedia di Euripide, per poi incontrare altre riletture tra le quali risalta quella di Seneca in epoca romana. Testo teatrale di secolare repertorio e grande banco di prova per attrici di ogni terra ed epoca, esso è oggetto di rilettura da parte di Pasolini al termine di due decenni in cui l’Italia e l’intero mondo occidentale hanno visto un travolgente sviluppo industriale postbellico. Come successivamente denunciato da Pasolini stesso, tale approccio fanatico all’idea del progresso ha comportato un letterale «genocidio culturale» nei confronti dell’identità contadina del nostro paese, tramite processi di inurbamento e industrializzazione di rara ferocia. È una riflessione che trova conferma costante nella filmografia di Pasolini, e che risale poi alle sue antichissime origini rievocando il Mito di Medea. Sacerdotessa della Colchide, testimone di una cultura fortemente legata a una religiosità arcaica che innerva e motiva totalmente lo scandire della quotidianità, Medea tradisce la propria fede per seguire per amore l’ellenico Giasone, giunto nella sua terra per recuperare il Vello d’Oro, pelle di un caprone dalle facoltà taumaturgiche. Dopo un significativo prologo affidato a un Centauro, il film si sposta a dare forma alle terre lontane di Medea, aderendo a un’espressività primitivistica. In un certo senso Pasolini sembra tendere nelle sue scelte estetiche esattamente al recupero della perfetta simbiosi tra Umano e Divino. La parola umana, come oggetto che dà espressione alla ragione, è lungamente assente. Si recuperano invece altre forme di comunicazione/espressione verbale, sostanzialmente rintracciate in forme di canto mistico e popolare, fatto di litanie e suoni iterativi. È fortemente evocato insomma un orizzonte di Sacro memore dei riti dionisiaci e pre-dionisiaci, tributati da più parti (da Nietzsche in giù) del ruolo di progenitori della tragedia greca. Il rito è del resto riallestito in tutte le sue componenti, fatto di balli, canti, preghiera, sacrificio umano, cannibalismo e maschere demoniache. Una religiosità antica, “spontaneistica”, a suo modo istituzionalizzata ma assai più vicina alla magia e al dialogo diretto con la natura che a forme ordinate di liturgia. Dopo il prologo, Pasolini introduce alla sua riflessione con un’ammirevole sequenza dedicata a tale rito di fertilità, dove la giovane vittima sacrificale porta sulle labbra lo stesso sorriso costante e ingenuo di alcuni dei suoi sottoproletari romani, figure fisse del suo immaginario cine-letterario. La sequenza risalta per la ricchezza e la fantasia figurativa dei costumi di Piero Tosi, ma è altrettanto evidente che l’approccio estetico di Pasolini resta volutamente poveristico, ai limiti del documento etnografico ideato intorno al reenactment di antiche culture. L’inquadratura è spesso affidata all’incerto tremolio della macchina a mano, le comparse vistosamente non professionalizzate sorridono talvolta in camera – come ricorda Laurent Terzieff per voce di Serafino Murri, «queste immagini [sono] spesso frutto di riprese parallele che Pasolini faceva da solo mentre la sua equipe tecnica girava “canonicamente” il film»1. In sostanza, Pasolini ruba immagini ai margini del set e in sede di montaggio fa uso cospicuo di queste riprese aggiuntive. Come buona parte del cinema pasoliniano, Medea finisce così per trovare un proprio punto di fusione fra riflessione ontologica e opzione stilistica in direzione di una riscoperta della rudimentalità cinematografica, in perfetta coerenza con l’evocazione del Mito. L’approccio da «cinema del reale» applicato alla ricostruzione figurativa di una remota età ancestrale spinge la lettura del film verso una propria revisione terzomondista della classicità greco-antica. La cultura da cui Medea proviene, così ancorata a pratiche di magia feroce e barbarica, evoca infatti in età contemporanea varie forme di rimosso socio-culturale, non ultimo il richiamo allegorico all’emarginazione dei vari Terzi Mondi sparsi per il pianeta. Del resto, Creonte, re di Corinto e padre della futura sposa di Giasone, non fa misteri al riguardo. Medea è cacciata dalla città non solo perché d’intralcio ai progetti matrimoniali della giovane Glauce, ma anche perché portatrice di una – parole di Creonte – «diversità di barbara». Medea è dunque tradita e marginalizzata, in quanto rappresentante di una lontana cultura della quale si ha paura – e quel mare che separa la terra di Giasone dal paese di Medea è fin troppo memore delle acque solcate dalle imbarcazioni di profughi africani degli ultimi decenni, più o meno mal tollerati in Europa.

Altrettanto significativo, d’altra parte, è il percorso intrapreso dal personaggio di Giasone lungo il film. Presto abbandonati gli stupori infantili dell’età della poesia, Giasone è prima guerriero, poi innamorato di Medea, infine cinico calcolatore e manipolatore in funzione di un proprio futuro prestigio sociale. Il Centauro riappare significativamente sdoppiato. Il Centauro sacro, conosciuto da Giasone quand’era bambino, è accompagnato da un suo doppio sconsacrato. L’infanzia, preistoria e fase preculturale dell’uomo, è età del sacro. L’età della coscienza porta a una desacralizzazione compiuta alla luce della razionalità. L’uomo antico, individuale e sociale, cede il passo all’uomo moderno. Il Vecchio Centauro ispira sentimenti. Il Nuovo Centauro li esprime. È la ragione a dare facoltà d’espressione, è la ragione a spingere alla parola laddove la pienezza dell’età della poesia non la contempla. Ormai reso muto dall’età della coscienza, il Vecchio Centauro è, non ha bisogno di interpretazioni. Lo stesso conflitto, del resto, è ricondotto da Pasolini in una dimensione ancor più intima tramite l’iterativa evocazione della dimensione onirica. Nella frattura tra sogno e realtà si rispecchia infatti la frattura primigenia tra Mito e Storia. Il sogno è l’ultimo residuo, il più intimo e quello sì indistruttibile, dell’uomo antico, di strutture di pensiero e d’espressione prelogiche e preculturali. Poesia e sogno sono gli ultimi brandelli di un uomo antico spazzato via dall’arroganza della ragione e, in forme ancor più contingenti, dell’omologazione.

Secondo tale linea di ragionamento, lo stesso cinema di Pasolini assume vesti estetiche in tutto coerenti alle proprie riflessioni. Medea è infatti caratterizzato da un linguaggio fortemente sintetico, affidato a operazioni di traslazione e condensazione, che come sempre in Pasolini rifiutano oltretutto l’idea della presa diretta o del doppiaggio mimetico. Spirito di condensazione onirica che, nella scelta delle location per la città di Corinto, spinge Pasolini a inscrivere dentro le mura di Aleppo in Siria gli inconfondibili marmi bianchi degli edifici di Piazza dei Miracoli a Pisa. L’effetto è straniante come quello di un sogno. Eppure, la scelta di Pisa non appare poi così occasionale. Se nell’immaginaria Colchide di Medea si è assistito all’evocazione di templi barbarici, improvvisati e rudimentali, nella civilizzata Corinto incontriamo invece luoghi di culto testimoni di una forma d’arte che dà razionalità all’esercizio della spiritualità, molto più consona all’uomo moderno. In tal senso Piazza dei Miracoli a Pisa si delinea per un vero e proprio trionfo di architettura religiosa moderna, elegante ed essenziale/razionale insieme, comprendente tutte le fasi dell’esistenza dell’uomo (l’infanzia/Battistero, l’adultità/Duomo, il lutto/Camposanto). È un’idea di architettura religiosa, soprattutto, che destina al culto uno spazio ben preciso e delimitato, non diffuso e parallelo al quotidiano scandire delle ore dell’uomo, bensì confinato a luoghi e tempi definiti e circoscritti. In sostanza, Pisa è arte della coscienza, è razionalizzazione del Divino, in netto contrasto con le grotte dedicate al Vello d’Oro in Colchide.

In fuga polemica dal presente omologante e capace di potenti interpretazioni del pallido futuro davanti a sé, Pasolini sembra fondere Assoluto e Contingente, Mito e Storia anche nella scelta dei suoi volti: Maria Callas, figura fatta Mito grazie alla sua voce, e Giuseppe Gentile, rappresentante della gloria storica ottenuta nelle gare di atletica alle Olimpiadi del 1968 di Città del Messico, entrambi alla prima e unica esperienza cinematografica. Inserite in un’operazione di profonda sintesi espressiva, le loro figure si rendono funzionali a un’idea di cinema che sembra alludere ai processi condensativi del cinema delle origini. Non a caso Carlo Lizzani2 chiama in causa le icone russe per il gusto figurativo dei primi e primissimi piani frontali di frequente adottati da Pasolini. L’icona è a sua volta traccia e apparenza simbolica di un antico Divino.

NOTE
1. Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano, 1994, p. 119.
2. Cfr. «Incontro con Carlo Lizzani», in Pier Paolo Pasolini, Medea, dvd, Rarovideo, Campi Bisenzio, 2014.

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