Il muto di Gallura

Il muto di Gallura

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Il torinese Matteo Fresi esordisce alla regia con Il muto di Gallura, racconto di una sanguinosa faida nella Sardegna di metà Ottocento. Un film non privo di ambizioni, non tutte destinate al successo ma che ha il coraggio di rileggere un pezzo di storia nazionale – oscuro ai più – ricorrendo all’immaginario western. Già visto lo scorso autunno al Torino Film Festival.

La guerra dei Vasa e dei Mamia

Questa storia, ambientata nella Gallura di metà Ottocento, ruota intorno alla faida che ebbe luogo tra le famiglie Vasa e Mamia, che causò la morte di oltre 70 persone. Bastiano Tansu è un personaggio realmente vissuto. Sordomuto dalla nascita, venne maltrattato ed emarginato finché la sua furia e la sua mira prodigiosa non divennero utili alla causa della faida. Il legame di sangue e l’assassinio di suo fratello Michele, lo annodano indissolubilmente a uno dei due capi fazione, Pietro Vasa che lo trasforma nell’assassino più temuto dell’intera faida. Lo stato e la chiesa procedono per tentativi, spesso maldestri, per arginare l’ondata di terrore mentre le due fazioni si consumano a vicenda. Quando le paci di Aggius determinano la fine della faida, Bastiano sembra aver trovato anche la pace interiore nell’amore corrisposto per la figlia di un pastore. [sinossi]

Chissà in quanti hanno memoria oggi de Il muto di Gallura, secondo i cultori della materia l’opera letteraria più ricca e interessante della carriera di Enrico Costa. E chissà in quanti ricordano lo stesso Costa, che pure Grazia Deledda definì come proprio “maestro”, ed è senza ombra di dubbio lo scrittore storico sardo di maggior spessore, fosse anche solo per il monumentale volume Sassari, una vera e propria risorsa enciclopedica per lo studio della sua città natale. La Gallura fa parte proprio del sassarese, e quindi fin da ragazzo Costa aveva avuto modo di ascoltare e di leggere delle gesta sanguinarie del “muto”, così com’era chiamato Bastiano Tansu, sordomuto dalla nascita e ferale nella sua vendetta personale contro la famiglia Mamia, colpevole di aver ucciso la madre del suo unico amico – la sua condizione di mutismo e sordità l’aveva inevitabilmente emarginato all’interno della società gallurese dell’epoca. Il muto di Gallura, oggi romanzo dimenticato, è un lavoro indispensabile per chiunque avesse voglia di confrontarsi con la natura selvaggia della Sardegna di metà Ottocento (il “muto” operò in quegli anni, il romanzo venne pubblicato nel 1884 riscuotendo successo anche all’estero, soprattutto in Francia e in Germania). Proprio per questo appare lodevole la scelta di Matteo Fresi, quarantenne torinese già docente della scuola Holden – oggi parificata al DAMS come studio universitario – di tornare a Costa, al suo romanzo, e di trasportarlo in immagini. La sua scelta, per una storia così turpe e sanguinosa, è quella di un’immagine perennemente limpida, così lavorata dalla fotografia di Gherardo Gossi. Una forma di contrappasso, che in qualche misura spiazza lo spettatore, riuscendo però a superare anche l’impasse di una dialettica tra i personaggi a volte fin troppo semplice, quasi basica.

Fondamentalmente a Fresi sembrano interessare in particolar modo due aspetti del film: il primo è la rappresentazione del più classico degli archetipi narrativi, vale a dire l’uomo che solitario si erge contro l’ingiustizia prendendo posizione in una storia più grande della sua, e il secondo è la possibilità di muoversi all’interno di un’antropologia della visione che permetta uno studio seppur superficiale di un mondo arcaico, e quindi determinato da regole ferree. Per quanto la messa in scena dell’arcaismo sardo, per di più accentuato com’è inevitabile che sia dall’utilizzo della lingua locale – il gallurese in realtà è una dominante corsa, in quelle zone il sardo è quasi completamente scomparso –, non manchi di qualche faciloneria, Il muto di Gallura ne è senza dubbio rafforzato. Fin dalla prima sequenza si entra in contatto con un universo dominato dal rito. Rito che il personaggio principale contribuirà a smentire pur rinverdendolo: in questo senso la figura del muto è vista da Fresi come un innovatore, l’esploratore di una wilderness sociale oltre che strettamente naturale. Ed è per questo che la scelta di trasformare il film in una sorta di “malloreddus western” emerge come l’elemento più convincente tra quelli messi in atto da Fresi. A partire dalle prime sequenze, tra feste e lotte intestine, Il muto di Gallura prende le forme dell’epica, senza però dimenticare per strada lo strazio del suo protagonista, costretto all’emarginazione e allo stesso tempo eroe, vittima della Storia eppur carnefice, e in ultima istanza leggenda. In questa crasi, pur sospinto di quando in quando da venti autoriale a dirla tutta un po’ velleitari, Il muto di Gallura trova una sua forma concreta, terrigna, che ne rappresenta la sua reale forza: un film di visi, spari, amori impossibili – la scena più sentimentale del film purtroppo è anche la meno convincente, perché dominata da una nudità privata del desiderio della carne, là dove invece il sangue della vendetta scorre in modo credibile –, vendette effimere, silenzi. Rimanendo nell’apparentamento con il western non possiede Il muto di Gallura la potenza espressiva, né la compiutezza cinematografica (e neanche l’intima tragedia) de Il grande silenzio di Sergio Corbucci (entrambi focalizzati su redentori muti, e destinati al fallimento), eppure è apprezzabile che ci sia qualcuno in Italia che non segua i dogmi del racconto storico, e della messa in scena del “passato”, cercando invece traiettorie personali. Il futuro dirà se si è trattato solo di un’illusione.

Info
Il trailer de Il muto di Gallura.

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