Studio 666

Studio 666

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Studio 666 è un film che sembra provenire da un’epoca lontana, quando il cinema poteva permettersi di essere puro divertissement, e di “giocare”. Come lancio per il decimo album in studio dei Foo Fighters, Dave Grohl ha pensato bene di scrivere il soggetto di un horror che parla di musica (dei Foo Fighters, che interpretano loro stessi), demoni, case maledette, e che guarda all’epoca d’oro di John Carpenter – anche in scena –, Sam Raimi, e Wes Craven.

Di Dream Widow e altre maledizioni

Per registrare il tanto atteso decimo album, la leggendaria rock band dei Foo Fighters si trasferisce a Encino, in California, in una villa intrisa della macabra storia del rock and roll. Qui infatti, decenni prima, un rocker posseduto dal demonio si è spinto troppo oltre, entrando in contatto con forze oscure. Una volta giunto in quella casa, anche Dave Grohl si trova alle prese con il blocco dello scrittore e con forze soprannaturali che minacciano il completamento del disco e la stessa esistenza della band… [sinossi]

I Dream Widow, la band che evocò il diavolo – o chi per lui – in una lussuosa villa di Encino, in California, mentre registrava il suo primo album, ovviamente non esiste. Eppure, altrettanto ovviamente, Dave Grohl ha pensato bene di dare vita (iper-postuma, sopravvissuta alla morte fittizia in scena e perfino all’uscita di Studio 666) lo scorso a un EP di otto tracce, la prima delle quali si intitola per l’appunto Encino, mentre le altre si attestano nella prassi metal, da March of the Insane a Angel with Severed Wings, fino ad arrivare alla terminale – in tutti i sensi – Lacrimus dei Ebrius. Per quanto poco abbia a che fare con un’opera cinematografica, sembra ragionevole partire proprio dall’EP dei Dream Widow per avvicinarsi a una creatura bizzarra come Studio 666, film che porta la firma in calce di BJ McDonnell ma è in tutto e per tutto parto creativo di Grohl, che oltre a scrivere il soggetto è anche protagonista assoluto con la sua band, i Foo Fighters. Non è casuale che McDonnell, pur avendo diretto dei videoclip e un lungometraggio, l’assai dimenticabile Hatchet III, sia soprattutto un tecnico, un cameraman, un uomo al servizio della regia: non è casuale perché l’artefice di ogni singola inquadratura sembra proprio Grohl, in un’operazione che sembra provenire da un’epoca lontana, quando il cinema poteva permettersi di essere puro divertissement, e di “giocare”. Studio 666 è a tutti gli effetti un gioco, l’occasione per celebrare il decimo album in studio dei Foo Fighters, rinverdendo i fasti d’altri tempi, quando il cinema era ancora considerato un veicolo commerciale di fondamentale importanza.

È proprio la nostalgia di Grohl, che trasforma i suoi fedeli sodali in una sorta di Beatles alla corte dell’horror anni Ottanta – senza evitar loro la necessaria mattanza, sia chiaro – il punto di forza principale di un film anche esile, ma che trova nella sua stessa ideazione un significato così puro e autentico da far guardare con estrema simpatia anche le scelte più facili, grossolane, o gratuite. Grohl invecchia, così come la sua band arrivata addirittura al giro di vite del decimo album? Ed ecco venir fuori una commedia horror svaccata il giusto, che sa di non doversi prendere sul serio e torna con ludica lucidità – si perdoni il bisticcio linguistico – ai tempi di Wes Craven, Sam Raimi, e soprattutto quel John Carpenter che si presta addirittura a una duplice collaborazione, recitando in un brevissimo cameo in cui è un ingegnere del suono e “regalando” al film l’ouverture musicale sui titoli di testa. L’imprinting migliore che esista. Certo, lo spettatore deve avvicinarsi a Studio 666 con la voglia di aderire al clima di festa perpetua – per quanto grondante sangue – che si legge negli occhi di ogni attore in scena, ma una volta che questa osmosi avviene il divertimento è assicurato. I Foo Fighters – in scena c’è anche il batterista Taylor Hawkins, venuto a mancare solo pochi mesi fa, lo scorso febbraio: lugubre vederlo ancora sullo schermo – utilizzano un codice tutto loro, e Studio 666 a tratti fa percepire l’aria sbalestrata e allo stesso tempo elettrizzante del film tra amici, magari girato per trascorrere un fine settimana: è il suo maggior pregio, ma allo stesso tempo il suo più grande difetto, perché fa venir meno qualsiasi riflessione possibile sullo stato del rock, che avrebbe davvero bisogno di un’evocazione demoniaca per tornare al centro della narrazione. Grohl sa di essere stato sorpassato a destra e a manca da un catalogo pop-trap-rap e di essere un oggetto del passato, e quindi si trasforma in demone e riesuma una materia orrorifica che guarda a sua volta a un mondo che non c’è più.

In questo grand guignol senza fine, tra chitarristi cotti al barbecue, teste spaccate a metà da un crash, demo lasciate a marcire tra le budella di aspiranti rocker, e chi più ne ha più ne metta, si deve necessariamente rimanere a un livello superficiale, senza cercare – come alcuni hanno fatto – chissà quale recondito significato: è il cinema come mostra delle atrocità della società dello spettacolo, messa in fila di tutta la divertita barbarie del mondo. Il rock uccide, e anche il cinema, ma allo stesso tempo entrambi rendono immortali, molto più del sangue di un pipistrello lasciato scolare all’infinito in una cantina putrescente nel cuore ricco, e beatamente indifferente, della California. Ogni tanto fa bene ricordarlo.

Info
Il trailer di Studio 666.

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