Hatching – La forma del male

Hatching – La forma del male

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La finlandese Hanna Bergholm esordisce alla regia di un lungometraggio con Hatching – La forma del male, bizzarro body horror che ragiona sull’impero dell’apparenza nel mondo occidentale, e sull’imprinting dato dai genitori alla propria prole. Inquietante nella sua laccatissima riproduzione di una realtà che nasconde nell’armadio o sotto il letto l’aberrazione quotidiana fingendo la perfezione.

L’uovo ha fatto la morte

Una ginnasta di 12 anni cerca disperatamente di compiacere la madre, una donna ossessionata dal mito della famiglia perfetta che pubblicizza sul suo blog popolare. Un giorno la ragazzina trova uno strano uovo, lo nasconde, lo tiene caldo. Quando l’uovo si schiude, ciò che emerge è oltre ogni immaginazione. [sinossi]

Hatching – il sottotitolo italiano recita in modo davvero didascalico La forma del male, quando forse sarebbe stato ancora più angosciante tradurre dall’inglese (in originale si chiama Pahanhautoja) e chiamare il film La schiusa – segna l’esordio alla regia per la finlandese Hanna Bergholm, e si può inserire senza troppa fatica nella lunga tradizione dell’horror scandinavo, che anno dopo anno continua a segnalarsi come una delle sacche di vitalità cinematografica più persistenti e coerenti d’Europa. L’area nordica è così caratterizzante di suo che Bergholm ha potuto girare il suo film in Lettonia pur ambientandolo in una non meglio precisata zona del territorio finnico; non sta infatti nella peculiarità di ciò che prende corpo in scena una precisa collocazione geografica, ma semmai un mood condiviso, la necessità di una lettura del mondo circostante che sia filtrata attraverso l’occhio deformante dell’orrore, e nel caso specifico del body horror. Bergholm parte da due principi, a loro modo anche sovrapponibili: l’educazione e l’imprinting. Ha educato i suoi figli la madre di Tinja, che in particolar modo dalla ragazzina pretende un allenamento quotidiano verso la perfezione, passando per i passi da ginnasta; in realtà tolto questo aspetto la donna non sembra curarsi un granché di nulla, eccezion fatta per il blog che l’ha resa celebre e che sfrutta per propagandare l’idea della famiglia perfetta, della casa perfetta, della perfetta messa in pratica dell’ideologia borghese. Eppure basta un battito d’ali per mandare in frantumi l’idillio apparente. Proprio mentre la famiglia sta registrando uno dei video che la madre utilizzerà per il suo blog, si sente un picchiettio alla finestra, e quando Tinja va a vedere di cosa si tratti nel salone entra un uccello, nero e spaventato, così confuso da andare a sbattere a destra e a manca distruggendo vasellame e perfino il lampadario; quando l’animale riesce a essere bloccato, la madre di Tinja si premura di spezzargli immediatamente il collo, per poi far gettare il cadavere nell’immondizia dalla figlia, che però non si accorge di come l’uccello muova ancora flebilmente l’ala.

Per quanto sia da questo momento che Hatching si spinga nei territori del soprannaturale, giocando tra l’altro in modo evidente con gli aspetti più onirici e surreali, utilizzando dunque la materia “reale” come qualcosa di eternamente trasformabile, è evidente che Bergholm fin da subito abbia l’intenzione di descrivere un mondo orribile, e pericoloso. L’uccello, che da vittima diverrà ovviamente elemento perturbante della vicenda – in ossequio ai deliri ossessivi già resi canone da Edgar Allan Poe –, è solo l’elemento scatenante della discesa nel maelstrom, ma in realtà la famiglia di Tinja terrorizza lo spettatore da subito, con la sua artefatta perfezione, con la sua crudeltà sommessa, con il ghigno alto borghese di chi ha il potere di uccidere e far, e lo sfrutta a proprio piacimento. La grande e splendida villa dove vive la famiglia è un luogo dell’orrore e del conformismo così come le villette a schiera che Tim Burton o John Waters demitizzavano decenni or sono; e non è casuale la scelta di non fornire di un nome i due genitori, quasi che Bergholm voglia sottolineare l’assoluta normalità di una famiglia del genere, frutto di un processo sociale che nessuno sembra aver voglia di mettere in discussione. Perché il punto di forza del film sta per l’appunto nel mettere alla berlina, pur diversificandolo, il concetto di “educazione”. Sarà l’imprinting a guidare la schiusa di quell’uovo che Tinja ha raccolto nel bosco e che si fa via via sempre più gigantesco ogni volta che la ragazzina si allarma, e non si sente a suo agio (per colpa dell’educazione materna, visto che il padre è un essere pressoché inutile, passivo, del tutto disinteressato a ogni cosa).

Cosa possa uscire dall’uovo è un dettaglio che conviene mantenere segreto, ancor più in un’epoca in cui lo spoiler fa più paura dell’horror stesso, ma è giusto sottolineare come Bergholm sappia gestire tanto la satira crudele del mondo alto-borghese à la Society quanto i deliqui onirici e perfino la presenza in scena di esseri animatronici. In questa capacità di gestire la messa in scena, al di là della pur interessante riflessione sulla maternità e le sue “storture” (nulla di nuovo per quanto riguarda il genere, in ogni caso), si trova l’anima più pura di Hatching, un film che non ha alcun timore di spingere il pedale dell’assurdo ma sa sempre rintracciare l’intima verità dei suoi personaggi, i loro desideri, le loro debolezze, le ambizioni. Il merito va anche a un cast in gran forma – e Siiri Solalinna, che interpreta la dodicenne Tinja, ha tutte le qualità per costruirsi una carriera nel cinema –, ma soprattutto all’intelligente regia di Bergholm, mai estetizzante, mai fine a se stessa, mai innamorata del proprio sguardo. Puppet Master, il cortometraggio che l’aveva resa nota a livello festivaliero qualche anno fa, aveva mostrato la strada, Hatching si muove nella stessa direzione senza perdersi dietro un budget senza dubbio più corposo. E dimostrando, nel finale, di avere anche il coraggio di non fermarsi alla prassi, ma di osare.

Info
Hatching- La forma del male, il trailer italiano.

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