Signs of Love

Signs of Love

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Drammone delle periferie metropolitane, Signs of Love di Clarence Fuller mette insieme problematici legami familiari, questioni sociali e disabilità fisica. La materia narrativa è ampia e sovrabbondante, ma amalgamata fino a un buon punto di equilibrio. Protagonisti Hopper e Dylan Penn, figli della coppia Penn-Wright, e Zoë Bleu Sidel, figlia di Rosanna Arquette (a sua volta presente nel cast d’attori). Alla Festa del Cinema di Roma per Alice nella Città.

La vita è dura là fuori

Port Richmond, quartiere di Philadelphia, oggi. Trentenne privo di grandi speranze per il proprio futuro, lo spacciatore Frankie commercia in stupefacenti per provvedere alla sorella Patty e al figlio di lei, un adolescente buono e ingenuo che zio Frankie cerca con ogni sforzo possibile di tenere lontano dalla cattiva strada. In giro nel quartiere si muove anche il padre di Frankie e Patty, un tossicomane di mezza età divorato dal consumo di droga. Uno spiraglio di speranza sembra aprirsi davanti a Frankie dall’incontro con Jane, una ragazza sorda di buona famiglia. Tra i due sboccia l’amore, ma il loro rapporto deve affrontare inevitabili ostacoli socio-familiari… [sinossi]

Facile sarebbe avviarsi a speculare sulle sovrapposizioni tra realtà e finzione per un film come Signs of Love, opera prima di Clarence Fuller che vede in due dei ruoli principali Hopper e Dylan Penn, figlio e figlia di Sean Penn e di Robin Wright. Non c’è nulla (e ci mancherebbe) di autobiografico, anche perché il film appartiene a tutt’altro autore che nulla ha a che fare con la famiglia Penn, ma quantomeno è curioso che in un unico film si convochino i due figli di Sean e Robin esattamente in ruolo di fratello e sorella. Un certo maledettismo facile facile, del resto, ha accompagnato la carriera di Sean fin da ragazzo, rimodellata con il passar degli anni in una versione più addomesticata man mano che crescevano anche le ambizioni di Sean non più soltanto di attore ma anche di filmmaker. En passant, la litigiosa coppia Penn-Wright si era dedicata al ritratto di una follia d’amore a due con il lontano She’s So Lovely (Nick Cassavetes, 1997), specchio deformato di un rapporto nella realtà fatto (si dice) di poderosi alti e bassi, culminato poi con il divorzio definitivo nel 2010. E in Signs of Love si allude adesso a un’ingombrante figura paterna che ha pesantemente condizionato il percorso dei due fratelli protagonisti. Infine, per il buon peso degli intrichi familiari, altre due protagoniste del film sono madre e figlia nella realtà, la ritrovata Rosanna Arquette e la ballerina prestata al cinema Zoë Bleu Sidel.

Nel drammone di Clarence Fuller, Hopper e Dylan Penn sono chiamati a incarnare due personaggi messi al centro di una famiglia fortemente problematica, dove hanno ricoperto e ricoprono un ruolo fondamentale lo spaccio e il consumo di droga. Il vero protagonista, Frankie, è un pusher che nella vendita di stupefacenti realizza l’unico effettivo introito domestico. Con tale metodo il ragazzo mantiene la sorella più grande, Patty, e il figlio di lei, un adolescente che Frankie cerca di tenere con ogni suo possibile sforzo lontano dalla cattiva strada. Il padre di Frankie e Patty è ancora in giro, ma è un irriducibile tossicomane a suo modo affettuoso e anche, soprattutto, profondamente ricattatorio. In questo contesto decisamente sovraccarico Frankie riesce a trovare uno spiraglio di speranza nell’incontro con Jane, una ragazza sorda di buona famiglia. Tra i due sembra nascere un vero amore, ancorché ostacolato dagli inevitabili steccati sociali. È lo stesso Frankie, del resto, a essere immediatamente consapevole della sua netta posizione di svantaggio di fronte alla famiglia della ragazza. Insomma, il contesto è quello di un melodrammone socio-familiare con tutti i crismi, ambientato in un quartiere periferico di Philadelphia dove attempati dropout sembrano lasciare il posto alle generazioni successive senza soluzione di continuità. Sul finale anzi dal melodramma si procede robustamente verso toni tragici, abbondantemente prevedibili e annunciati come si conviene del resto nella tradizione della tragedia.

A elencarle così tutte insieme le sciagure di Frankie e della sua compagnia sembrano tante, troppe e fuori controllo. Il primo pregio di Signs of Love è invece la capacità di mantenere un prodigioso equilibrio fra le varie componenti narrative, che quasi mai danno l’impressione di sconfinare nell’eccessivo. Clarence Fuller riesce a tenersi lontano dal patetico anche nel rapporto tra Frankie e Jane, e questo è in buona parte merito dell’assenza di soluzioni blandamente consolatorie. Certo, talvolta viene da chiedersi il senso ultimo di un’operazione che pur conservando un disegno volenterosamente sociale resta comunque pressoché del tutto inscritta in una dimensione familiare. Le vicende dei personaggi riescono sì ad appassionare, soprattutto la caparbietà di Frankie, testa pensante che proprio perché pensa è capace di contenere anche la sofferenza. Il finale interviene poi rapidamente a dare uno scioglimento da buon esempio didascalico, ma fino a quel momento Fuller ha tenuto il polso della situazione senza cedere di un millimetro sulla credibilità. Per un dramma che affonda così vistosamente in precise problematiche sociali resta invece una generale impressione di gratuità che non trova da nessuna parte pieno senso e giustificazione. E d’altra parte i pur volenterosi personaggi messi in gioco non sono così ben strutturati e delineati da poter conferire un significato universale al loro travaglio. Ampie dosi di macchina a mano in continuo movimento contribuiscono a un pathos epidermico anche efficace che tuttavia non ha la forza di scavare significativamente nell’orizzonte evocato.

E le prove dei figli d’arte? Se la Jane sorda di Zoe Sidel è discretamente efficace, d’altro canto il ruolo di Dylan Penn è decisamente marginale rispetto al sovrabbondante personaggio di Hopper, indiscutibile protagonista a tutto tondo che occupa il centro della scena fin dalla prima sequenza. Indubbiamente Hopper Penn è molto aiutato dalla scrittura riservata alla figura di Frankie, fratello e figlio recalcitranti ma zio rocciosamente affettuoso. È probabilmente grazie alla prova di Hopper che il film riesce a mantenersi equilibrato in un tale magma di suggestioni pronte a spingere verso l’eccesso. Frankie non perde quasi mai la calma (e sì che di motivi ne avrebbe), e se proprio lo fa, coglie l’occasione per cambiare davvero vita. Forse nelle intenzioni di Clarence Fuller c’è anche la volontà di riecheggiare un po’ di cinema americano anni Settanta. Ma siam proprio molto lontani. Per il momento Fuller fa un apprezzabile cinema indipendente anni Venti del Duemila. Che da almeno tre decenni mostra rarissimi scarti rispetto a una consolidata fisionomia convenzionale e rassicurante. In ogni caso Fuller merita una spalluccia di incoraggiamento. Più che una spalluccia, invero. E intanto, godiamoci anche il ritorno di Rosanna Arquette, richiamata per un breve ruolo significativo. È sempre un piacere.

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Signs of Love, trailer.

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