Palm Trees and Power Lines

Palm Trees and Power Lines

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Dopo la miglior regia al Sundance, anche il premio come miglior film e sceneggiatura al 40mo Torino Film Festival: Palm Trees and Power Line, il dramma limpido e (a suo modo) tragico di Jamie Dack, all’esordio nel lungo dopo la regia di corti e varie altre professioni rivestite sui set, colpisce al cuore pubblico e giurie grazie ad una narrazione per immagini posata e contemplativa, che pian piano scivola nell’abisso dell’abuso di potere. Manierista nella sua ostentata ricerca di realismo “naturalista”, marchio di fabbrica (e spesso garanzia di premio in quel di Park City, Ohio) di un certo tipo di indie americano ormai visivamente più codificato delle overdose digitali nei blockbuster, ma servito da un lavoro di casting particolarmente azzeccato, specie nei due ruoli principali.

Amore molesto

Sempre più dissociata dai luoghi di ritrovo pigri e ubriachi e dalle relazioni superficiali con i suoi coetanei immaturi, la diciassettenne annoiata e senza obbiettivi Lea è incuriosita da un uomo più grande, Tom, che l’ha salvata dopo una disastrosa cena in un ristorante. Inizialmente diffidente (ha il doppio della sua età), Lea scopre che le attenzioni di Tom riempiono un bisogno profondo e inespresso, e l’investimento di Lea nella loro relazione soppianta rapidamente i suoi già difficili rapporti con sua madre, single distratta, e il suo poco affiatato gruppo di amici. Ma la pazienza e la volontà iniziali di Tom di lasciare che Lea prenda il comando lasciano gradualmente il posto a una dinamica in cui la sua consapevolezza del potere è angosciantemente chiara. [sinossi]

Trasformazione in lungo di un precedente corto della stessa regista/sceneggiatrice Jamie Dack, e con lo stesso titolo, evocativo il giusto e indubbiamente indovinato, Palm Trees and Power Lines imposta il suo discorso filmico su una lenta progressione di piccoli eventi apparentemente indipendenti tra loro destinati a conflagrare, non soffrendo così il cambio di formato e di lunghezza del minutaggio grazie a “strati” di sequenze che ispessiscono e approfondiscono i due personaggi principali e i rapporti tra gli stessi, senza che l’impianto generale ne risulti compromesso. Ad una soluzione brillante che permette di riciclare e ampliare (all’apparenza) agevolmente il progetto precedente, non si accompagna purtroppo una maturità registica che riesca a rimanere al pari: pur funzionalmente illuminato dalle luci di Chananun Chotrungroj, il film (girato originariamente in 35mm) non riesce a trovare una veste capace di emergere, e altri film visti al Torino Film Festival come War Pony lo certificano, tra i prodotti similari emersi dalle factory produttive estranee o consanguinee al circuito major nordamericano. Il Sundance Festival, creatura di Robert Redford nata negli anni Ottanta del secolo scorso con l’intenzione di riportare all’attenzione sguardi “altri”, diversi dalle produzioni tonitruanti e muscolari che nel decennio precedente avevano cannibalizzato l’immaginario del pubblico generalista, si è ripiegato su se stesso finendo per dettare una sorta di linea visiva neoconformista su cui i giovani cineasti sembrano accomodarsi, ponendo attenzione maggiore su narrazione e recitazione. Da questo di vista, l’opera di Dack è da manuale: il tema è quanto di più attuale possibile, la quasi esordiente (al suo attivo la partecipazione ad un paio di episodi televisivi e la comparsata nel video di Tiny Dancer di Elton John) Lily McInerny indossa il personaggio di Lea con ammirabile naturalezza, Jonathan Tucker, faccia da adolescente inquieto nei Novanta in Sleepers di Barry Levinson o insieme alle “vergini suicide” di Sofia Coppola, dona al suo Tom una caratterizzazione particolarmente accordata sulla sua fisicità e sull’aura di James Dean da discount che si porta appresso.

Tom è muscoloso, perennemente inguainato in magliette bianche aderenti, e sovrasta Lea, le sue manone nodose ne accarezzano il viso dando costantemente l’impressione di poter far male, di poter perdere il controllo. La relazione tra i due è plasticamente presentata in tutti i suoi squilibri, di età, esperienze, onestà, malizie, e l’inevitabilità dello scatenarsi di situazioni avverse è percepibile sotto pelle fin dalla prima inquadratura, al primo sguardo tra i due. Ma questo non succederà nelle modalità intuibili fin da subito, non ci si trova semplicemente di fronte alla nascita di una relazione tossica, ma uno scarto che non anticipiamo porterà l’apparente simbiosi e le dinamiche di potere ad un approdo terrorizzante ed inatteso, specie nelle sue modalità. Quando ogni maschera cade, il bulletto di provincia (siamo nei sobborghi attorno a Los Angeles) sprofonda definitivamente nella miseria umana e nell’abiezione morale di cui l’abbiamo sospettato fin da subito, e ci ricorda, pur con le dovute differenze, una versione aggiornata dei laidi profittatori interpretati da Vittorio Gassman in Riso amaro e Anna, in quel tardo neorealismo ibridato con generi d’oltreoceano come il noir o la commedia rosa. Anche Tom è un residuo, un giovane probabilmente di belle speranze sputato via dagli ingranaggi della Città dei Sogni, per certi versi simile al Mickey Davis interpretato da Simon Rex, ex porno-attore allo sbando interpretato da un ex star della comicità demenziale, in Red Rocket di Sean Baker. Come può un orco dal fascino così discutibile soggiogare psicologicamente una ragazzina diciassettenne? Perché il quadro che emerge dalla quotidianità di Lea non è certo ammaliante…

Affogata nella noia di un’estate interminabile, con una madre dalla vita incasinata e una combriccola di amici coetanei che brama in primis il sesso, Lea cerca stimoli in un non-luogo incapace di restituirne, unica relazione davvero simbiotica quella con il suo smartphone. Rispetto a questo nulla sotto vuoto spinto, la considerazione e l’attenzione fornitale in quantità industriali da Tom basta per rappresentare una novità, un possibile sbocco, uno scoglio a cui aggrapparsi. Una fantasia amorosa prima mentale che fisica, ed è molto difficile uscirne anche quando la realtà urla ferocemente che è consigliabile lasciar stare, scappare finché si è ancora in tempo. Niente di particolarmente innovativo e memorabile, insomma, tranne la già più volte accennata chimica innegabile tra i due protagonisti, morfologicamente perfetti per i ruoli. Da una giuria composta, tra gli altri, da una cineasta come Martina Parenti e, finalmente, da un critico cinematografico (scelta ricaduta su Fabio Ferzetti, attualmente leggibile, per chi volesse, sulle colonne de L’Espresso) ci saremmo aspettati una scelta più coraggiosa e meno “facile” per il conferimento del primo premio, anche se la scelta di compromesso tra i vari gusti differenti rimane l’approdo privilegiato in buona parte delle situazioni simili. Un’opera che può essere apprezzata anche molto dal pubblico più occasionale, ma che difficilmente può riuscire a toccare profondamente il cuore del cinefilo, già aduso a multiple visioni dal tono e dalla veste similare. Si attendono con sincera curiosità, ad ogni modo, le prossime prove di Jamie Dack, autrice dall’ottima penna e comunque capace di sequenze d’impatto. Ne citiamo, in conclusione, una per tutte: mentre Lea attraversa un corridoio e procede verso la macchina da presa, con la premura e l’ansia che portano ad accelerare il passo senza cedere allo sbigottimento, Tom irrompe d’improvviso dal fuori campo e la placca, con un abbraccio simile alla chiusura di una tagliola. Se il cinema è sintesi visiva, e lo è senza dubbio alcuno, tutto il film è racchiuso in questo abbraccio. Ed è la sequenza che allontana i dubbi di eccessiva faciloneria nel quadro ritratto, colpevolizzante verso un mondo degli adulti assente e inadeguato al ruolo da rivestire.

Info
Palm Trees and Power Lines sul sito del TFF.

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