La roulotte di Topolino

La roulotte di Topolino

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Tra i capolavori sulla breve distanza prodotti da Walt Disney nel corso degli anni Trenta, La roulotte di Topolino è uno dei più fiammeggianti per la creatività insubordinata, la qualità comica dei gag, il dinamismo action delle sequenze. Con protagonista il trio per eccellenza della “Casa del Topo”, vale a dire Topolino, Paperino, e Pippo.

I villeggianti

Topolino, Pippo, e Paperino trasformano la loro casa in una roulotte e partono per una vacanza. Tra un tornante e l’altro, dopo aver lasciato la guida per andare a pranzare, Pippo sgancia per errore il caravan su cui si trovano i suoi due amici, senza accorgersene. La roulotte inizia una folle corsa all’indietro. [sinossi]

Ne I ragazzi della 56a strada di Francis Ford Coppola uno dei membri dei Greasers, Keith, si fa chiamare Two-Bit e indossa sempre una t-shirt con su impressa l’immagine del Topolino anni Trenta, quello ideato da “Ub” Iwerks con i pantaloncini rossi e i bottoni gialli; in una sequenza del film il televisore è acceso, con Two-Bit che si sta godendo la visione di Mickey’s Trailer, noto in Italia come La roulotte di Topolino. Centesimo cortometraggio con protagonista Topolino, Mickey’s Trailer è il secondo film breve del 1938 (lo anticipa di qualche mese Costruttori di barche), anno in cui il muride più amato e celebrato nella storia dell’umanità viene tradotto in immagini in “sole” cinque occasioni. Un numero dimezzato rispetto agli anni d’oro di una serie di corti comici che tra il 1932 e il 1936 conta ben 52 titoli. Il motivo è chiaro, e riguarda la visionaria intuizione di Walt Disney di dar vita a un lungometraggio animato: l’uscita in sala di Biancaneve e i sette nani rivoluziona l’immaginario cinematografico mondiale con una potenza pari a pochi, pochissimi film (La corazzata Pötemkin, ovviamente, ma si sa come Disney ed Ėjzenštejn parlassero la stessa lingua, attraverso gli occhi). Con l’approssimarsi della Seconda Guerra Mondiale e la svolta produttiva di Disney – nel 1940 è già la volta del fantasmagorico Fantasia, per esempio – i cortometraggi dedicati a Mickey Mouse inizieranno a diradarsi, al punto che tra il 1940 e il 1960 ne verranno realizzati solo 20, alla media di uno all’anno. Partendo da questo presupposto un classico come La roulotte di Topolino, che raggiunge le sale nel maggio 1938, può essere considerato quale ultimo, o uno degli ultimi, capolavori dell’età classica della produzione disneyana.

È sufficiente la primissima sequenza, con la casetta dalla cui porta esce Topolino che, azionando una leva sul pavimento, la trasforma in una roulotte, e la macchina guidata da Pippo che esce dalla casa stessa, per rendersi conto del portato comico e della genialità surreale che contraddistingue l’animazione della gang di Disney. Il tema portante dopotutto è la parte dominante della poetica disneyana, vale a dire una rilettura dei vizi e delle abitudini della borghesia statunitense ricorrendo a figure antropomorfe. Qui ci si diverte a prendere in giro la gita fuori porta, la vacanza in roulotte che a partire dagli anni Venti era diventata una delle scelte preferite dalla popolazione nordamericana: tra la spensieratezza di Topolino, la pigrizia mista ai modi burberi di Paperino, e la goffaggine estrema di Pippo – addirittura impegnato alla guida, con tutto quel che può dar seguito a una scelta simile – si passa poi in rassegna un campionario umano vario, che deflagra in modo irrefrenabile quando gli eventi precipitano. Dal momento in cui Pippo lascia la guida dell’automobile per unirsi ai sodali a pranzo (con ovvia lotta con il cibo dettata dai sobbalzi della vettura senza conducente) fino allo sganciamento del caravan dalla macchina, La roulotte di Topolino diventa un action slapstick difficile da eguagliare, grazie anche a una scrittura sopraffina delle gag e a una regia iper-dinamica, agevolata da un tratto del disegno morbido, accogliente, rotondo. Sequenze come il tuffo di Paperino nella vasca da bagno, la roulotte che curva utilizzando il guardrail a mo’ di binari, o le parti della roulotte che si modificano meccanicamente per cambiare l’ambiente (da sala da bagno a camera da pranzo, per esempio), non possono che rimanere profondamente impresse nella memoria dello spettatore.

Nel rivedere questo capolavoro breve della sterminata produzione disneyana non si può non pensare con nostalgia a uno dei massimi geni dell’arte del Novecento (qui come d’abitudine è lui stesso a prestare la voce nella versione originale a Mickey Mouse), in grado attraverso le sue creature di modificare il modo di pensare, e di guardare il mondo. Arte astratta messa a beneficio dei più piccoli, con la porta dell’immaginazione completamente spalancata, divelta per impedire che qualcuno possa osare richiuderla. Ma si ripensa con nostalgia anche a nomi ignoti ai più, e che furono coinvolti in modo attivo nella realizzazione del sogno disneyano. Perché ad esempio non si serba memoria di Ben Sharpsteen, nel 1938 poco più che quarantenne, che dopo aver diretto personalmente alcune sequenze di Biancaneve e i sette nani supervisionerà il comparto regia per Pinocchio e Dumbo prima di diventare uno dei nomi ricorrenti nella serie di documentari che formano il ciclo La natura e le sue meraviglie? E perché lo stesso oblio copre il ricordo di Jack Kinney, qui sceneggiatore ma regista tra gli altri del già citato Pinocchio del 1940 e poi tra gli altri di Saludos amigos, I tre caballeros, nonché animatore chiave della celebre sequenza d’apertura di Bambi? Tra gli animatori qui coinvolti c’è poi spazio per Cleto/Clyde Geronimi, Don Patterson, e Cy Young, talento hawaiano che finirà suicida a poco meno di settant’anni dopo essere stato dimenticato da tutti. Per fortuna basta aprire gli occhi per ritrovarsi sulla roulotte di Topolino, a volteggiare nell’aria con un gesto plastico che non prevede tragedie.

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