Dumbo

Mentre nelle sale di tutto il mondo sta per uscire il Dumbo diretto da Tim Burton torniamo alle avventure del 1941 dell’elefantino volante, strappato all’amore materno e accompagnato dal saggio topolino Timoteo. Un classico Disney dolcissimo e visionario.

Giammai gli elefanti volar!

In un circo della Florida la signora Jumbo, una delle elefantesse, dà alla luce un cucciolo che chiama Dumbo. A causa delle sue enormi orecchio il piccolo viene schernito. Quando la madre si infuria per difenderlo Dumbo le viene strappato, trovando amicizia nel solo topolino Timoteo. Ma quelle orecchie così bizzarre e ridicole nascondono un segreto… [sinossi]
Corvo con gli occhiali: Avete mai visto volare un elefante?
Corvo alto: Io ho visto volare degli schiaffi.
Corvo grasso: Io ho visto volare degli insulti,
Corvo con la visiera: Io ho visto volar le sedie!

In una delle sequenze più spassose di quel misconosciuto oggetto di culto che è 1941 – Allarme a Hollywood di Steven Spielberg, il Generale Joseph W. Stilwell interpretato da Robert Stack si reca in una sala cinematografica – incurante della paranoia dilagante – per godersi sul grande schermo Dumbo. Al di là della questione filologica (il film uscì nelle sale statunitensi, grazie all’accordo con la RKO, il 31 ottobre del 1941), la scelta di Spielberg e degli sceneggiatori Bob Gale e Robert Zemeckis – due che si divertivano a giocare con il tempo passato, come dimostrano 1964: allarme a New York, arrivano i Beatles! e soprattutto Ritorno al futuro – cade su un titolo, come quello dedicato all’elefantino volante, che ben si presta al sogghigno beffardo. La storia di Dumbo contrasta nettamente sia con un clima paranoide come quello descritto da Spielberg sia, e forse ancor più, con la gerarchia militare incarnata da Stilwell. All’apparenza Dumbo non è nulla di più se non un film per bambini, con ogni probabilità il titolo più infantile dell’intera scuderia Disney degli esordi: non ha il chiaroscuro gotico di Biancaneve e i sette nani né le ombreggiature orrorifiche di Pinocchio, e ovviamente non possiede la stratificazione di Fantasia. Opere che mettono in mostra uno strapotere dell’immaginario che ha ben pochi eguali nella storia del cinema. Non è un caso che lo specchio delle brame di Disney rifletta l’immagine di Sergej Ėjzenštejn, e viceversa. Nel novembre del 1941 il regista de La corazzata Potemkin e Ottobre scrive: «Disney è, molto semplicemente, «al di là del bene e del male». Come il sole, come gli alberi, come gli uccelli, le anatre, i topi, i cerbiatti e i piccioni che attraversano il suo schermo. E perfino in misura maggiore di Chaplin. Di Chaplin che predica e spesso nei suoi sermoni si perde in smarrimenti da quacchero. I film di Disney, senza rivelare le macchie solari, giocano essi stessi sullo schermo terrestre come macchie solari luminose. Riflettono, riscaldano e non si lasciano catturare». [1]

Sì, forse non è sbagliato definire Dumbo come un film di retrovia. L’avanguardia era stata spazzata via dall’incedere della guerra mondiale da un lato e dalla placida borghesia dall’altro. Il conflitto bellico pretendeva sforzi economici, e portava con sé tante di quelle disgrazie da non volerne anche sullo schermo – e Fantasia era stato un azzardo al di là di ogni limite pensabile. La borghesia piccola o media che fosse non andava al cinema con l’intento di lambiccarsi il cervello, non voleva la musica classica, non amava l’idea di un burattino/bambino. Chiedeva a Disney ciò che Disney con le Silly Simphonies sembrava aver promesso: l’antropomorfismo. Topolino, Paperino e Pippo erano la classe media, senza intromissioni nella realtà, per quanto disegnata. L’avventura del dolce elefantino alato mette in fila una lunga sequela di compromessi. C’è un compromesso economico, che si riflette in fondali meno curati, nel dettaglio che si fa meno certosino e ossessivo rispetto al passato, e in una brevità del racconto che si muove in controtendenza se paragonata ai precedenti lungometraggi animati (Dumbo supera di pochissimo l’ora di durata, Biancaneve e i sette nani e Pinocchio si ergevano oltre l’ora e venti e Fantasia arrivava alle due ore; resterà in assoluto il “Classico Disney” più breve, con l’eccezione dell’immediatamente successivo Saludos amigos, che dura meno di tre quarti d’ora).
C’è però anche un compromesso più sottile, e che probabilmente non venne notato all’epoca. Se è vero che la storia dell’elefantino dalle grandi orecchie si rivolge in maniera più diretta e immediata al pubblico dei piccini, è altrettanto indiscutibile che il team che vi lavorò – non senza screzi col padrone Disney, come si scriverà più avanti – non si accontentò di edulcorare la vicenda. La sequenza in cui l’elefantessa Jumbo, madre del protagonista, si imbizzarrisce e viene rinchiusa a chiave senza permetterle di tenere con sé il cucciolo è di una violenza inaudita, con la frusta del proprietario del circo che colpisce idealmente anche gli spettatori e quelle funi che tengono ferma Jumbo che scorticano la pelle. Una sequenza mirabile, che arriva a esplodere sullo schermo dopo interi minuti di vessazioni patite dal povero elefantino. Schernito per le sue orecchie. Schernito dai suoi simili ma anche dal popolo, dagli umani. L’antropomorfismo è presente, e porta con sé tutte le meschinità di cui sono traboccanti gli esseri umani: crudeli, menefreghisti, profittatori e schiavizzanti.

In un mondo in guerra, in un’epoca di propaganda pura – cui diede il suo contributo anche la Disney – Dumbo mette in scena una Florida battuta dalla pioggia, scortese, crudele, priva di dolcezze. Quelle dolcezze che il protagonista troverà solo nel topolino Timoteo, piccolo e coraggiosissimo, e nei corvi in cui in molti videro lo stereotipo dell’afrodiscendente (essendo in pratica gli unici personaggi positivi della pellicola, viene da chiedersi perché – anche così fosse, ed è tutto da dimostrare – questo supporrebbe un comportamento razzista da parte degli artisti all’opera…). Oltre che, ovviamente, nella proboscide amorosa della madre, che non può però stringerlo davvero a sé chiusa com’è nella sua prigione. E gli elefanti sembrano davvero schiavi al lavoro nel sud segregazionista, costretti a piantare tende nel terreno sotto la pioggia battente, e a vivere solo per sollazzare gli istinti più beceri degli umani, che godono nel vedere un cucciolo d’elefante lanciarsi nel vuoto da altezze siderali, e godrebbero forse anche nel vederlo schiantarsi al suolo. Ma Dumbo, vessato per le sue orecchie fuori misura, sa volare. Come i corvi, e solo come loro, è libero di librarsi in cielo e vendicarsi idealmente di chi gli sta distruggendo la vita. Lo schiavo scatenato, come il Django di Quentin Tarantino.
Di tutti i film Disney all’apparenza Dumbo potrà anche apparire come uno dei più infantili – ed è in fin dei conti un film ad altezza cucciolo – ma sottopelle si muove un’indole battagliera e indomita. Lo dimostra l’emancipazione di Dumbo, ma anche quel voler mostrare en passant la protesta dei clown contro il proprietario che non li paga abbastanza, e che riprende in modo sardonico le battaglie sindacali per un miglior salario che i dipendenti della Disney combattevano proprio in quei mesi e che di fatto cambieranno in modo radicale i rapporti non di forza ma lavorativi all’interno della Casa del Topo. Ma l’indole battagliera e indomita la si ritrova anche in un passaggio, tanto breve quanto indimenticabile: dopo che si sono ubriacati Dumbo e Timoteo hanno visioni di elefanti rosa che marciano, suonano le fanfare e cantano: quattro minuti di puro trionfo onirico, tassello tra avanguardia e astrattismo che nessuno avrebbe mai osato inserire in un contesto infantile. Nessuno, a parte la Walt Disney Productions, ovviamente.

Note
1. Sergej M. Ejzenštejn, Walt Disney. A cura di Sergio Pomati, traduzione di Monica Martignoni. SE, Milano, 2004.
Info
Il trailer di Dumbo.
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