Phantom

Phantom

di

Con più di un dichiarato omaggio alla Marlene Dietrich di Shanghai Express e una regia ipercinetica ad alto tasso di spettacolarità, Lee Hae-young torna con il suo Phantom agli anni Trenta della dominazione giapponese sulla Corea, per amalgamare in un immaginario noir la spy-story patriottica con l’action al femminile. Una miscela potenzialmente esplosiva in cui non mancano diversi momenti di cinema indiscutibilmente affascinanti, eppure la bidimensionalità di buona parte dei personaggi, qualche cliché di troppo e una prolissa parte centrale di attese e depistaggi che ritardano l’adrenalina fanno ben presto perdere interesse nella vicenda. In prima italiana al 25mo Far East prima della distribuzione già annunciata da Lucky Red.

Joseon Express

Siamo nel 1933, a oltre 20 anni dall’inizio del duro processo di colonizzazione giapponese della Corea. Un nuovo governatore generale giapponese arriva a Seoul, ma diventa immediatamente il bersaglio di un tentato omicidio che fallisce solo per un pelo. La polizia ritiene che un misterioso gruppo di resistenza sia coadiuvato da una spia, nome in codice “Fantasma”, che ha accesso alle comunicazioni interne del governo coloniale. Il capo della sicurezza Kaito, fresco di nomina, riesce a ricondurre la fuga di informazioni a cinque potenziali sospetti, e senza por tempo in mezzo li riunisce tutti in un hotel di una località balneare, accingendosi a stabilire quale dei cinque sia il Fantasma. [sinossi]

Rimane negli occhi lo scintillio del rossetto sulle labbra illuminate dai fiammiferi, ripensando a Phantom. Rimangono i ralenti notturni delle protagoniste avvolte negli impermeabili che si incontrano per strada come femmes fatales sotto la pioggia, rimangono i dettagli delle gocce che scendono come lacrime dalle stecche e dalla cupola dell’ombrello, rimane il leggero flicker del magnetismo in prima visione di Marlene Dietrich diretta da von Sternberg in Shanghai Express, sullo schermo di quel cinema fra le cui poltrone scambiarsi messaggi crittografati su biglietti e locandine, mentre i complotti per liberare il Paese dalla dominazione nipponica prendono forma e magari falliscono, ma subito incessanti ripartono in nome di un ideale troppo grande per morire. Un incipit folgorante fatto di istanti dalla straordinaria potenza espressiva, con cui Lee Hae-young, sin da inizio carriera ospite fisso del Far East Film Festival di Udine, guarda al noir classico fra incontri oscuri e tentativi di decodifica, lenti di ingrandimento e sguardi che non hanno bisogno di parole, inchiostri simpatici e stampe a caratteri mobili, sigarette fra le labbra e cappelli a tesa larga, acquazzoni torrenziali e tensioni che salgono quando fra gli altri spettatori si intravvede un volto potenzialmente pericoloso. Del resto non è certo da ricercarsi nel comparto tecnico o nella confezione, il problema di Phantom. Un film, come spesso capita nella più che solida industria coreana, ostinatamente spettacolare e dal budget evidentemente consistente, curatissimo nella forma e nella messa in scena in tutti e tre i suoi cambi di genere, visivamente impeccabile in una regia vertiginosa tanto nei costanti e mai gratuiti movimenti di macchina quanto nel sapiente uso della CGI per mozzare il fiato con l’audacia delle zenitali giù per la scogliera. È semmai nella scrittura, che non appare la medesima meticolosità. È nella sua netta suddivisione in tre parti diseguali che, dopo i (troppo pochi) magnifici minuti che aprono il film con la pura immersione nel mistero e nell’immaginario degli anni Trenta, finisce con l’arresto dei sospettati per fare arenare per la maggior parte del tempo la narrazione in uno stanco e ripetitivo tutti contro tutti di sottotrame sterili e tutte simili che ritardano di troppo il deflagrare finale dell’azione, impantanandosi in un escape room di divagazioni, reciproci sospetti e continui tentativi di incastrare l’altro prigioniero per dimostrare la propria innocenza che ben presto perdono e fanno perdere l’interesse negli intrighi storici e politici, nei piani da portare a termine, e persino nelle reali identità e psicologie dei protagonisti. Un po’ come se il film, dopo le promesse (da marinaio) del suo prologo, si incartasse nelle sue stesse ambizioni di coralità e depistaggi fino a perdere il fuoco sulla sua eroina, troppo banale nelle motivazioni e troppo limitato nelle necessarie contraddizioni, troppo adagiato sui cliché e troppo pericolosamente vicino alla retorica quando i finali, troppi come in troppo cinema contemporaneo, inizieranno ad accumularsi uno dopo l’altro, per ergersi a reale riflessione storica e politica. E non può bastare l’adrenalina della terza e ultima (tardiva) sezione in cui finalmente scattano la pura azione e una doppia resa dei conti, seppure indubbiamente bene orchestrate e sostenute dalle grandi performance attoriali dell’ex Miss Corea Lee Ha-nee e della sempre più lanciata Park So-dam che dopo Parasite e Special Delivery continua la sua carriera ai vertici produttivi del cinema coreano, per recuperare l’incanto ormai irrimediabilmente smarrito.

Colpa di qualche scelta narrativa che può lasciare perplessi (perché, per esempio, chi sceglie eroicamente di sacrificarsi per gli altri nella sequenza successiva deve sempre necessariamente scoprirsi malandato ma ancora vivo?), e principalmente dei troppi personaggi così bidimensionali, superficiali e stereotipati attorno alla loro funzione (il grigio e goffo crittografo solo, puntiglioso e immancabilmente gattaro, il giovane spaventato che non potrà che crollare sotto la pressione dicendo quello che non sa ma crede di sapere, il cattivissimo capo della sicurezza sadico torturatore che tiene tutti sotto scacco e l’intero plotone di soldati giapponesi che meccanicamente ascolta e trascrive ogni dialogo captato dai microfoni nascosti in ogni stanza) da finire immancabilmente per depotenziare le motivazioni degli unici tre che invece sono realmente stratificati e di spessore psicologico – in testa le due protagoniste strenue combattenti, l’una magnificamente dissimulata in un’apparente segretaria capricciosa pronta a trasformarsi in valchiria e l’altra che nemmeno dopo la morte in azione della sua amata compagna riesce a smettere di combattere per lei e per gli ideali in comune, ma è indubbiamente ben scritto e almeno in potenza portatore di diverse riflessioni politiche e sociali anche l’ambiguo ufficiale di polizia nippo-coreano vero/falso doppiogiochista, forse da una parte o forse dall’altra, forse sospettato o forse ancora sostenuto dai suoi uomini, di certo disposto a tutto pur di riprendersi il comando che gli era stato tolto per via della nazionalità della madre. Ma non corriamo troppo senza le necessarie contestualizzazioni, andiamo per ordine. Molto liberamente tratto dal best seller cinese di Mai Jia Sound of the Wind, trasponendone dal 1941 della Seconda Guerra Sino-Giapponese a un 1932 situato poco oltre la metà dei trentacinque anni di dominio nipponico sulla Corea l’ambientazione, parte delle vicende, i messaggi femministi e queer intrinsechi nella vicenda e quelli anti-imperialisti ed emancipatori più espliciti nei dialoghi, Phantom racconta di un complotto del quale fa parte l’impiegata del Dipartimento delle Comunicazioni Park Cha-kyung, spia infiltrata che ha accesso a informazioni fondamentali per la Resistenza della Penisola. Nel momento in cui alle autorità nipponiche diventa chiaro che il luogo di scambio delle crittografie è una sala cinematografica, la protagonista e altri quattro spettatori che per diversi motivi possono essere a conoscenza dei segreti del governo coloniale vengono portati in un albergo a picco sul mare e messi l’uno contro l’altro dal capo della sicurezza Kaito, che dà loro 24 ore per dimostrare la propria innocenza oppure scoprire e consegnare il fantasma. Un film che sceglie inizialmente di ribaltare il whodunit, rivelando già dalle primissime inquadrature al pubblico l’identità della spia per la quale parteggiare e della quale condividere i dubbi fra la necessità di non essere scoperta e la volontà di proteggere gli altri innocenti, poi decide (probabilmente un po’ troppo tardi) di tornare al giallo nel momento in cui verrà fuori che i fantasmi potrebbero essere almeno due e iniziare a cooperare, e infine non potrà che lasciare esplodere l’adrenalina lungo i ripetuti deflagrare sempre più violenti dell’ultima sezione, con i colpi di pistola e con gli incendi appiccati nella sala macchine, con i combattimenti corpo a corpo in cui le eroine abbattono i soldati come mosche e con l’unica possibile via di fuga dall’albergo attraverso un finestrino, e poi ancora con l’ultima trappola ordita dal villain e l’ultima, decisiva, azione dei ribelli. Eppure, per quanto come si diceva non manchino momenti di ottimo cinema a sostenerlo e a renderlo a tratti più che godibile, e per quanto siano indiscutibilmente condivisibili i suoi messaggi, Phantom procede troppo a intermittenza e a repentini cambi di direzione per convincere fino in fondo, rinnega strada facendo troppe delle sue premesse autoriali per soddisfare realmente il pubblico più cinefilo, e fra un antagonista esageratamente monolitico e le stesse dinamiche che si ripetono pressoché identiche fra tutti i personaggi ritarda di troppo il passaggio al film d’azione per non rischiare di tediare chi invece cerca il ritmo incalzante dell’intrattenimento mainstream. Un vero peccato, perché gli ingredienti per un gran lavoro – viene in mente in tal senso il magnifico The Age of Shadows di Kim Jee-won, per molti motivi apparentabile ma di ben altro peso specifico – ci sarebbero stati tutti. Sarebbe bastato scegliere definitivamente quale film fare, realmente lirico e stratificato oppure realmente coinvolgente ed esplosivo. Con un po’ di ambizione in più oppure, più prosaicamente, con qualche minuto e accadimento inutile in meno.

Info
Phantom sul sito del Far East.

  • phantom-2023-lee-hae-young-01.jpg
  • phantom-2023-lee-hae-young-02.jpg

Articoli correlati

Array
  • Festival

    Far East 2023 – Presentazione

    Con il Far East 2023, in programma dal 21 al 29 aprile, il festival udinese festeggia le venticinque edizioni, e lo fa confermando la propria struttura, e preparandosi dunque di nuovo ad aprire le porte del Teatro Nuovo e del Visionario al cinema popolare dell'estremo oriente e del sud-est asiatico.
  • AltreVisioni

    Foxy Festival RecensioneFoxy Festival

    di Troppo frammentario nella struttura narrativa e debole nello sviluppo dei vari episodi, il film di Lee Hae-yeong si risolleva parzialmente nel finale, quando tutti i nodi vengono al pettine e si consumano i vari happy-end.