Parasite

Parasite

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Non era mai andato via Bong Joon-ho, ma ci piace dire che è tornato. Tornato ai livelli di Memories of Murder e The Host; tornato in patria e all’industria sudcoreana dopo la roboante lotta di classe di Snowpiercer e la meno convincente fanta-avventura di Okja; tornato a spiazzare e graffiare dal primo all’ultimo minuto. Parasite (Gisaengchung) è una delle vette del Festival di Cannes 2019. Travolgente.

Ritornerò

Ki-taek, Chung-sook, Ki-jung e Ki-woo. Padre, madre, figlia e figlio. La famiglia di Ki-taek è molto unita, ma sono tutti disoccupati, vivono in un appartamento fatiscente e sembrano condannati a un futuro desolante. Grazie alla raccomandazione di un amico, studente in una prestigiosa università, il giovane Ki-woo riesce a ottenere un lavoro ben retribuito: sarà l’insegnante d’inglese di Da-hye, figlia adolescente della ricca famiglia Park… [sinossi]

Che cos’è Parasite?
Una prima possibile risposta.
Il musicarello è un sottogenere cinematografico italiano, in gran voga negli anni Sessanta. Il termine è gergale, un po’ come i sandaloni, ma calza a pennello. Ci son passati un po’ tutti: Domenico Modugno, Fred Buscaglione, Adriano Celentano, Mina, Teddy Reno, Tony Dallara, Little Tony, Bobby Solo, Caterina Caselli e via discorrendo. Sì, anche Gianni Morandi. Tra i vari registi che hanno frequentato il genere, Ettore M. Fizzarotti è stato tra i più prolifici, quello con la produzione più significativa: Una lacrima sul viso (1964), Non son degno di te (1965), Perdono (1966), Stasera mi butto (1967), per citarne alcuni. Poi, certo, anche In ginocchio da te (1964) con Gianni Morandi, Laura Efrikian, Margaret Lee e Nino Taranto. Rapidamente sulla trama: Gianni parte per Napoli per il servizio militare, si innamora di Carla, la figlia del maresciallo, ma la tradisce con la bella e soprattutto ricca Beatrice. Ovviamente tornerà, in ginocchio da lei. Il film è un veicolo pubblicitario per l’omonima canzone, e viceversa. La differenza di classe, le frizioni pur ingenue e pallidissime tra poveri e ricchi, è un tema ricorrente nei musicarelli.

Che cos’è Parasite?
Una seconda possibile risposta.
Volendo impuntarsi su Noi (US), horror apertamente e splendidamente socio-politico, potremmo sottolineare alcune smagliature narrative, forzature che fanno parte del gioco e che giustificano allegramente la sagace struttura geometrica messa in piedi da Jordan Peele. Un sotto-sopra tagliente, rabbiosa metafora di una società spietata e impermeabile. Quasi impermeabile. Molte domande restano lì, sospese: in fin dei conti, ci si riempie gli occhi col quadro generale, con l’intuizione narrativo-schematica, e si può sorvolare a cuor leggero sulle falle dei due meccanismi.
In Snowpiercer la lotta di classe era lineare, vagone dopo vagone. Un film muscolare con qualche crepa nella scrittura e nella sua geometrica struttura. L’idea della possibile via d’uscita, anche se intrisa di improbabile ottimismo, rendeva monca la metafora socio-politica e imperfetta la relativa linearità.
Imperfezioni spazzate via dall’ultimo tassello di Bong Joon-ho: Parasite si inserisce in una poetica che si nutre da sempre di politica, stratificazioni, schemi e circolarità (ad esempio, i finali di The Host e Memories of Murder). Uno sguardo umanissimo e al contempo da puntiglioso entomologo – la sequenza degli scarafaggi, la corsa a quattro zampe su per le scale.

Che cos’è Parasite?
Una terza possibile risposta.
Nel finale di Una vita difficile di Dino Risi, Magnozzi (Alberto Sordi) rifila un celeberrimo ceffone all’affarista carogna Bracci, facendolo finire in piscina. Un finale liberatorio, consolatorio, ma non esattamente un lieto fine. Nel cinema sudcoreano, in particolare nella trilogia della vendetta di Park Chan-wook, il riscatto è inevitabilmente intriso di violenza e passa spesso attraverso qualche lama affilata – emblematica la sequenza di Mr. Vendetta in cui un disperato ex-dipendente di Park Dong-jin si autoinfligge con un coltellaccio delle terribili ferite, mentre Park lo osserva con glaciale noncuranza. Il Park di Mr.Vendetta è il talentuosissimo Song Kang-ho, capo della sbalestrata famiglia di Parasite. Vendetta e riscatto hanno varie forme, motivazioni e cause scatenanti.

Che cos’è Parasite?
Una quarta possibile risposta.
Parasite è una commedia, un thriller, un dramma. È la calzante rappresentazione della nostra società, delle sue dinamiche – un po’ paradossalmente (ma nemmeno troppo), è anche la fotografia della rigida struttura gerarchica di Cannes, della divisione in caste e delle stesse lotte intestine tra le caste, tra i fantomatici colori dei badge. Barking Dogs Never Bite. È cinema ricco di invenzioni e intuizioni narrative, apparentemente debordanti, eppure perfettamente inserite in uno schema. Nello schema. È Peele, è Loach, ma con una stordente lucidità e un ritmo travolgente. Si ride, si ride amaro, poi non si ride più. Bong colpisce duro: il flashback e il flashforward sono come un uno-due. Destro e sinistro. Al tappeto. Dura rialzarsi.

Di Parasite ci porteremo dietro/dentro alcune immagini.
L’incipit, il primo fotogramma: i calzini stesi – odore e profumo sono una questione di classe.
La sequenza della corsa notturna lungo quelle interminabili scale, quasi una discesa agli inferi che traccia la distanza tra ricchi e poveri. A ognuno il proprio posto. Con buona pace di Peele.
Il disco di In ginocchio da te, una perfetta parte per il tutto: l’abuso di inglesismi, le lezioni di espressione artistica, la musica lirica, l’incapacità di saper realmente valutare il valore degli oggetti, di un dipinto, della preparazione di una persona, ma anche di un piatto. Levigata apparenza e profonda ignoranza.
Il codice Morse, perché la lotta di classe è anche lotta contro se stessi. Spesso si perde.

Nessuno spoiler è stato maltrattato durante la scrittura di questa recensione.
Info
La scheda di Parasite sul sito del Festival di Cannes 2019.
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