La terra promessa

La terra promessa

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Dopo la parentesi hollywoodiana de La torre nera il danese Nikolaj Arcel torna in patria con Bastarden (The Promised Land, in Italia La terra promessa), racconto della conquista della brughiera nel Diciottesimo secolo da parte del volitivo capitano Ludvig Kahlen. Un’opera che guarda inevitabilmente alla wilderness del western, ma concentra l’attenzione sulle distonie sociali del Vecchio Continente. In concorso alla Mostra di Venezia 2023.

Una brughiera prima dell’alba

Nel 1755, lo squattrinato capitano Ludvig Kahlen parte alla conquista delle aspre e desolate lande danesi con un obiettivo apparentemente impossibile: costruire una colonia in nome del Re. In cambio, riceverà per sé un titolo reale disperatamente desiderato. Ma l’unico sovrano della zona, lo spietato Frederik de Schinkel, ha la presuntuosa certezza che questa terra gli appartenga. Quando De Schinkel viene a sapere che la cameriera Ann Barbara e il marito servitore sono fuggiti per rifugiarsi da Kahlen, il privilegiato e perfido sovrano giura vendetta, facendo tutto ciò che è in suo potere per scoraggiare il capitano. Kahlen non si lascerà intimidire e ingaggerà una battaglia impari, rischiando non solo la sua vita, ma anche quella della famiglia di emarginati che si è venuta a formare intorno a lui. [sinossi]

La storia della Danimarca non ha mai trovato molto spazio nei libri di testo italiani (e probabilmente lo stesso vale per il resto del sistema scolastico europeo); il piccolo Regno scandinavo viene ricordato oggi tra i paesi cosiddetti “frugali”, per qualche exploit sportivo – la vittoria dell’Europeo di calcio nel 1992, per esempio –, e per alcune importanti figure che hanno arricchito la storia del cinema, da Carl Theodor Dreyer a Lars von Trier. Torna dunque utile, al di là delle speculazioni critiche, imbattersi di quando in quando nei film di Nikolaj Arcel, che al contrario sembra molto attratto dalla possibilità di scandagliare attraverso le immagini la narrazione secolare della sua nazione. In particolar modo Arcel sembra attratto dalla seconda metà del Diciottesimo secolo, quando l’illuminismo iniziò a farsi largo all’interno del sistema bigotto di una monarchia che all’epoca, grazie al patto di unificazione con la Norvegia e al possedimento dell’Islanda, era assai più rilevante di quanto non sia oggi. Il trattato di Kiel nel 1814 metterà fine all’unione dano-norvegese, e sessant’anni dopo l’Islanda otterrà l’autogoverno, primo passo verso la completa indipendenza raggiunta comunque solo al termine del secondo conflitto mondiale. Nel Diciottesimo secolo, prima che i venti rivoluzionari iniziassero a far vacillare i palazzi del potere e a far rotolare qualche testa, la Danimarca era una nazione solida, assai diffidente verso tutti i confinanti – nonostante la necessità inevitabile di avere un rapporto commerciale con la Germania –, e profondamente reazionaria. Ma era anche una nazione in parte selvaggia, visto che i vari tentativi di bonifica della grande brughiera dello Jutland, opera così fervidamente desiderata dal re Federico V, si erano tutti rivelati un fallimento.

È in questa condizione, nel 1755, che si apre Bastarden – il titolo internazionale The Promised Land (tradotto letteralmente in Italia come La terra promessa) allarga la visuale al contesto ma fa perdere centralità alla figura del protagonista, dai natali certamente non nobili –, presentato in concorso all’ottantesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il “bastardo” del titolo è il capitano in pensione Ludvig Kahlen, che brama l’accesso a un titolo nobiliare al punto tale da proporsi come apripista nella conquista e nella bonifica della brughiera: dopo un breve conciliabolo i connestabili del re decidono di accogliere la sua proposta, certi dell’ennesimo fallimento. Ecco dunque che fin da subito Arcel guarda in modo diretto all’epopea western del cinema statunitense: c’è una wilderness da conquistare e conoscere, ci sono i “selvaggi” che vi vivono – i briganti che si accampano nella foresta, e che hanno con loro persino una bambina rom, rapita chissà quando e chissà dove – e che rappresentano una minaccia costante, c’è una natura da sottomettere per permettere l’accesso alla civiltà. Arcel dimostra di saper gestire i grandi spazi aspri della brughiera, e da un punto di vista visivo La terra promessa permette allo sguardo di perdersi verso l’orizzonte. Ma il regista è anche conscio di come la Danimarca del 1755 non siano le terre d’oltreoceano: c’è la finitezza data dal mare del Nord, e soprattutto c’è già quella che si auto-considera una “civiltà”. Ecco dunque che il film si muove su un duplice conflitto: quello di Kahlen con la natura incolta da un lato, e che vede contrapposto l’uomo invece alla nobiltà locale, incarnata da tal Schinkel, giovane smidollato che dopo la morte del padre si è fatto aggiungere un “De” davanti al cognome per aggiungere nobiltà alla nobiltà. Ma un baronato non basta a fare un uomo, ed è questo il centro nevralgico del film di Arcel, un principio che muoveva già il precedente Royal Affair la cui azione si svolgeva circa un decennio più tardi, con Cristiano VII già sul trono.

Rispetto al film del 2012, però, La terra promessa schiva quasi completamente le trappole della retorica melodrammatica – persino nel rapporto affettivo tra il protagonista e le due donne che gli gravitano attorno, la figlia del re di Norvegia e la cameriera dell’uomo, si riesce a evitare il grondar di melassa – e soprattutto dimostra di avere una struttura solida, un po’ come la semplice ma resistente abitazione che Kahlen e i suoi pochissimi aiutanti costruiscono nel bel mezzo del nulla. La drammaturgia lavorata da Arcel insieme al veterano Anders Thomas Jensen (abituale collaboratore di Susanne Bier) partendo dal romanzo Kaptajnen og Ann Barbara di Ida Jessen è il principale punto di forza del film: i personaggi sono strutturati, possiedono psicologie non bidimensionali – fa eccezione De Schinkel, cattivo per antonomasia al punto da far uccidere un fuggitivo durante una festa in giardino e scaraventare una povera cameriera dalla finestra per puro diletto – e permettono allo spettatore di affrontare le loro sofferenze come un percorso di conoscenza di sé, del proprio desiderio. Cos’è un’ossessione se non la si lega a qualcosa di umano, di materiale, di collettivo? Cos’è un pezzo di carta con su scritto “barone” se poi non si può più dormire accanto alla donna che si ama, o alla ragazzina che si è imparato a trattare come una figlia? Poco o nulla, suggerisce Arcel, che getta in un cantuccio l’idea stessa di regno, di nobiltà, di possesso per eredità, e apre invece a una società di bastardi, di figli senza padri, di unioni non riconosciute dalla chiesa, di lavoratori che non potrebbero lavorare per legge, di etnie che neanche sono riconosciute dalla suddetta legge, e possono essere trattate come carne da macello. Lì, tra i “bastardi”, capisce infine di doversi posizionare Kahlen, conscio di non poter far parte della società e neanche di poterla cambiare, perché il potere gestisce il caos a proprio piacimento – viene in mente il passaggio di Salò in cui si discetta dell’anarchismo del potere fascista – e si può solo sperare di evitare la gogna, o i lavori forzati. Opera solida, forse leggermente scricchiolante nel finale, La terra promessa è un film che mostra anche un volto diverso di Zentropa, la storica società di produzione fondata da Lars von Trier e Peter Aalbæk Jensen oltre trent’anni fa e ora divenuto il marchio più mainstream della piccola nazione – i due fondatori ne possiedono ancora oggi solo una piccola percentuale. Perché anche nel cinema c’è sempre una brughiera da conquistare, con la speranza che possano prima o poi spuntare le patate.

Info
La terra promessa sul sito della Biennale.

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