La palla nº 13

La palla nº 13

di

Buster Keaton ha ventinove anni quando dirige e interpreta Sherlock Jr., vale a dire La palla n° 13, terzo dei suoi film a superare la durata del cortometraggio. Incredibile e forse ineguagliato punto d’incontro tra il cinema comico e il saggio teorico, il film rappresenta la summa del pensiero di Keaton, e a distanza di quasi un secolo continua a lasciare a bocca aperta. Titolo di chiusura della 42ma edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone in un ideale double bill con Il pellegrino di Charlie Chaplin.

La vita non ha ellissi temporali

Un proiezionista gentile aspira ad essere un detective. Quando viene accusato di aver derubato il padre della ragazza di cui è innamorato torna in cabina di proiezione e addormentatosi sogna di essere diventato il nuovo Sherlock. [sinossi]

“There is an old proverb which says: Don’t try to do two things at once and expect to do justice to both”. A novantanove anni dalla sua realizzazione La palla n° 13 – titolo con cui è conosciuto in Italia Sherlock Jr. – si apre ancora com’è ovvio su questa didascalia, ed è come se il film si inaugurasse con la prima dirompente intuizione auto-riflessiva: se infatti l’intertitolo fa riferimento al protagonista, quel “boy who tried” che vorrebbe essere a un tempo proiezionista e detective privato, è difficile non ravvisarvi un gioco interno dello stesso Buster Keaton. Lui, che nel 1924 ha solo ventinove anni ed è al terzo lavoro da regista – ma il primo in solitaria – che si erge al di sopra del cortometraggio (prima de La palla n° 13 arrivano infatti Senti amore mio, che i più conoscono come L’amore attraverso i secoli, e Accidenti, che ospitalità o La legge dell’ospitalità, il primo co-diretto con Eddie Cline, il secondo con John Blystone), molto più del protagonista della storia è davvero colui che ha provato a fare due cose nello stesso momento. Keaton dirige, interpreta, monta, studia e cura i pochissimi ma estremamente complessi effetti speciali, arrivando allo stesso tempo a riflettere sul proprio ruolo, e sul senso stesso dell’immagine in movimento. Lui, nato neanche tre mesi prima della prima proiezione cinematografica storicamente intesa come tale – quella al 14 di boulevard des Capucines –, nel 1924 non fa il cinema, lo è: dopotutto La corazzata Potëmkin arriverà solo un anno più tardi, così come La febbre dell’oro, mentre Nascita di una nazione è “vecchio” di appena nove anni, ma all’interno di una nuova arte che non ha ancora festeggiato i tre decenni si tratta di un lasso di tempo molto considerevole. Così “vecchio”, il capolavoro di David W. Griffith, che in qualche modo può essere già parte integrante del discorso che Keaton fa sul cinema, il suo immaginario e il ruolo che svolge all’interno della società statunitense prima della Grande Depressione. Nei ruggenti anni Venti un proiezionista può pensare di studiare da detective, imparando tanto dai libri quanto e ancor più dal cinema stesso, emblema della modernità più ancora delle automobili, o della guerra da cui gli Stati Uniti sono usciti vincitori solo un lustro prima.

I tempi moderni che un decennio più tardi Charlie Chaplin squadernerà in tutta la loro fallace crudeltà celata sotto il lustrino del potere del Capitale sono già in piena azione quando Keaton realizza La palla n° 13 (in Italia il primo titolo sarebbe dovuto essere Calma, signori miei, come riporta d’altronde il catalogo delle 42me Giornate del Cinema Muto di Pordenone, dove il film è stato presentato come evento di chiusura in un ideale double bill con Il pellegrino di Chaplin) ed è in parte sul conflitto tra antico e moderno che si giocano gli elaborati gag che prendono corpo in scena, tanto qui quanto in tutta la sua produzione: si pensi a La casa elettrica da un lato e a Io e la vacca dall’altro, o ancor più al dualismo che si può venire a creare tra i cannibali tra i quali si trovano a sbarcare i protagonisti de Il navigatore e la storia d’amore tra un ferrotipista e una addetta al cinegiornale della MGM che è alla base de Il cameraman. In questo senso La palla n° 13 sembra quasi assumere un valore di summa rappresentativa dell’intero corpus autoriale di Keaton, e del rapporto che intercorre tra lui e il tempo in cui si trova a lavorare. Ovviamente a risaltare all’immediato all’occhio sono le incredibili capacità fisiche dell’attore e cineasta nativo di Piqua, comunità del Kansas che si sviluppò a fine Ottocento attorno alla stazione ferroviaria che attraversava la contea (e si pensi al ruolo svolto dal treno in molte comiche di Keaton, oltre al fatto che pure il cinema, come Piqua, “nacque” anche grazie al treno): si pensi alla sequenza del pedinamento che vede l’aspirante detective seguire come un’ombra – più o meno – l’uomo che l’ha incastrato accusandolo di aver impegnato l’orologio da taschino del padre della ragazza di cui entrambi sono spasimanti, e che termina con Keaton saltare su varie carrozze di un treno in movimento per poi aggrapparsi al bocchettone di una cisterna d’acqua; al lancio dal tetto di una palazzina direttamente dentro una decappottabile approfittando della sbarra di un passaggio a livello; della corsa a perdifiato seduto sul manubrio di una motocicletta che non ha però alcun conducente, caduto in una pozza d’acqua. Quest’ultima sequenza, in particolare, evidenzia il concetto di comica come atto della distruzione di cui Keaton sarà uno dei principali cantori: in circa quattro minuti il protagonista senza rendersi conto di essere a bordo di una vettura lanciata a tutta velocità ma senza nessuno a pilotarla si confronta con qualsiasi traversia, dal traffico a spalate di terra in faccia, da un addio al celibato a un torrente, da un ponte parzialmente incompleto alla dinamite, fino a un salto nel vuoto che gli consente di mettere fuori gioco il bruto e salvare la bella.

Tutto ciò avviene in scena, ovviamente, ma anche in una dimensione duplice di film nel film o per meglio dire di “sogno nel film”: scacciato di casa dal padre della ragazza di cui è innamorato che lo crede un ladro e un profittatore – quando nella realtà il povero ragazzo ha anche ceduto un proprio dollaro a una ragazza che lo cercava nei rifiuti asserendo di averlo perso (altro gag che funziona come un congegno a orologeria, grazie alla strepitosa mimica di Keaton ma anche a una regia che, e lo si ripeterà poco più avanti, catapulta il cinema almeno un decennio più in là) –, il protagonista torna deluso al suo lavoro di proiezionista e, addormentatosi dopo aver fatto partire il film Hearts and Pearls, sogna di accedere al film stesso per prendervi parte e (almeno lì) svolgere il ruolo di eroe che la vita vissuta non gli ha finora concesso. Lo strabiliante lavoro effettistico messo a punto da Keaton grazie alla fedele assistenza del suo cameraman Elgin Lessley, soprannominato “il metronomo umano” per la sua capacità di girare a ogni velocità richiesta senza nessun tipo di scossone, o di perdita della geometria dell’inquadratura. Questa precisione millimetrica nella gestione della macchina da presa consente a Keaton di elaborare ad esempio il “salto” del suo personaggio da una sequenza all’altra del film nel film, come se si attraversassero tutti i generi cinematografici: un’idea che probabilmente faceva parte del repertorio comico appreso dal regista ai tempi del vaudeville, ma che si tramuta in una delle prime riflessioni davvero teoriche sulla macchina/cinema, e sul suo senso. Senza mai perdere di vista la sua intricatissima trama Keaton riesce a rendere La palla n° 13 una esaltante cavalcata nel senso dell’inquadratura, del montaggio, del racconto per immagini che supera o almeno discosta il centro del discorso dalla mera attrazione comica, pur presente a un livello così sublime da apparire a distanza di quasi cento anni impareggiabile. Sempre con il supporto di Lessley, Keaton costruisce una messa in scena che si fa forte delle regole degli albori del cinema per sconvolgerne la prassi: ad esempio da un classico primo piano melodrammatico dell’amata che si sente raggirata dall’uomo che la sta corteggiando (in effetti una piccola bugia Keaton gliel’ha detta, trasformando il prezzo di una scatola di cioccolatini da 1 dollaro a 4 dollari con l’aiuto di una matita), si passa a un carrello laterale per seguire – pedinamento nel pedinamento – il ragazzo che si incolla “come un’ombra” al suo rivale in amore.

L’effetto speciale, che per di più in larga parte narrativamente Keaton “giustifica” come elemento onirico, non prettamente reale (e questo rende La palla n° 13 anche una delle più riuscite osmosi tra le esigenze avanguardistiche del surrealismo e l’ideale del cinema come elemento popolare, atto a intrattenere il pubblico), non è lì solo per stupefare coloro che si recano in sala, ma è l’esaltazione della settima arte come quella più rappresentativa del Novecento, e della sua inveterata velocità. Keaton, in un atto che negli stessi anni porterà avanti Chaplin, eleva finalmente il comico dallo slapstick puro, anche quando ne mantiene in scena alcuni dei dettami principali, e lo utilizza come grimaldello ideale per spingere in avanti il cinema, in un percorso di maturazione che troverà in Ėjzenštejn, Vertov, Murnau, Lang, e poi ancora Buñuel – grande appassionato di Keaton – altri indispensabili cantori. Per questo sarebbe stato un peccato se la regia fosse stata assegnata dallo stesso Keaton all’amico Roscoe “Fatty” Arbuckle, ancorato alla comicità degli albori: si sarebbe persa la spinta a una evoluzione naturale della rivoluzione griffithiana che è tra gli elementi che rendono Sherlock Jr. un atemporale capolavoro. L’illusione dello schermo, che si può vivere solo nel sogno, può fungere da ispirazione al punto da imitare nella vita reale ciò che si vede accadere in un film, ma non può che risultare frustrata nel momento in cui ci si trova davanti a un’ellissi temporale dopo dissolvenza in nero (che preconizza in un certo senso il celebre aforisma di Alfred Hitchcock secondo il quale “Un film è la vita a cui sono state tagliate le parti noiose”). Nessun saggio teorico è mai stato così divertente, nessun film comico è stato così ancorato al linguaggio del cinema, e alla necessità di un suo rinnovamento.

Info
Qui si può vedere La palla n° 13.

  • la-palla-n°-13-sherlock-jr-1924-buster-keaton-01.jpg
  • la-palla-n°-13-sherlock-jr-1924-buster-keaton-02.jpg
  • la-palla-n°-13-sherlock-jr-1924-buster-keaton-03.jpg

Articoli correlati

Array
  • Festival

    Giornate del Cinema Muto 2023Giornate del Cinema Muto 2023

    Le Giornate del Cinema Muto 2023 si aprono con La divine croisière di Julien Duvivier e si chiudono in bellezza con Chaplin (The Pilgrim) e Keaton (Sherlock Jr.). Un programma ricco di slapstick, western e film d’avventura.
  • Festival

    giornate del cinema muto 2023 presentazioneGiornate del Cinema Muto 2023 – Presentazione

    In partenza le Giornate del Cinema Muto 2023 con un programma, curato da Jay Weissberg, ricco di slapstick, western e film d'avventura. Quest'anno sono previsti focus sugli attori Harry Piel e Harry Carey, una retrospettiva sullo slapstick e il proseguo di quella sulla Ruritania.
  • Giornate 2018

    Lo spaventapasseri RecensioneLo spaventapasseri

    di , Classico mirabolante e frenetico, ripresentato alla 37esima edizione di Le giornate del cinema muto, Lo spaventapasseri è l'esaltazione del corpo-cinema di Buster Keaton e la perfetta equazione della sua visione del mondo, smontabile e rimontabile a piacimento.
  • Venezia 2018

    The Great Buster: A Celebration RecensioneThe Great Buster: A Celebration

    di Diretto e raccontato in voice over da Peter Bogdanovich, The Great Buster: A Celebration - presentato in Venezia Classici - è un omaggio troppo impersonale al grande talento comico/teorico di Buster Keaton.
  • Pordenone 2014

    Chaplin e Keaton

    Alle Giornate del Cinema Muto la proiezione di The Immigrant di Charlie Chaplin e di The Boat di Buster Keaton ha permesso - anche per via di alcune similitudini tematiche e di gag - di intavolare un piccolo gioco di confronti tra i due film.