Come le foglie al vento

Come le foglie al vento

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Tra gli apici dei melodrammi del periodo d’oro alla Universal di Douglas Sirk, Come le foglie al vento racchiude tutti quegli elementi suggeriti di distruzione gentile della società americana, rappresentata come una monade capitalistica, patriarcale e classista. La poesia di Sirk si esprime con la dissolutezza del vento e la decadenza di immagini naturali come le foglie secche autunnali che pervadono tutti gli spazi. La quintessenza del mélo. Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

Le foglie morte

Jasper Hadley, fondatore di un impero petrolifero nel Texas, ha due figli: Kyle, alcolizzato, e Marylee, viziata e ninfomane. Diverso è il migliore amico di Kyle, Mitch, che è innamorato di Lucy, divenuta moglie di Kyle, ma non la tocca per l’amicizia fraterna che lo lega all’uomo. Quando Lucy sta per avere un figlio, sospetta, anche sobillato dalla gelosa sorella, che l’amico sia l’amante della moglie. [sinossi]
(It is written on the wind)
(It is written on the wind)
A faithless lover’s kiss is written on the wind
A night of stolen bliss is written on the wind
Just like the tide leaves
Our dreams we’ve calmly thrown away
Now they’ve flown away
Softly flown away
The promises we made are whispers in the breeze
They echo and they fade just like our memories
Though you are gone from me
We never can really be apart
What’s written on the wind
Is written in my heart
The Four Aces, Written on the Wind

Una macchina sportiva gialla, con a bordo un uomo impazzito, sfreccia per un paesaggio irreale, tetro, fatto di un groviglio di tralicci, cavi della luce, pali del telegrafo, pompe estrattive, una cupezza in technicolor: è la presentazione, l’ouverture, del melodramma Come le foglie al vento (in originale Written on the Wind), del 1956, uno degli apici dei melodrammoni dell’epoca d’oro alla Universal di Douglas Sirk, ispirato a un romanzo di Robert Wilder di dieci anni prima. Una canzone soave accompagna quell’incipit che fa presagire un’imminente catastrofe, un testo che parla della dissoluzione dei sogni, delle speranze, della vita, tutto portato via dal vento. La dimensione spaziale urbanistica è precisamente disegnata dal regista come simbolo del progresso capitalistico americano, fordiano. Il grigio, l’opacità della dimensione produttiva, dell’estrazione del combustibile fossile, motore energetico di una nazione ricca e opulenta. Potremmo paragonare quella estetica all’analoga cupezza industriale della raffineria di Ravenna di Il deserto rosso. Siamo nella cittadella del petrolio del magnate Jasper Hadley, segnalata da una gigantesca insegna in cima a un imponente palazzo. Di fatto una cittadella che è la sua proprietà, il suo regno, con le proprie forze dell’ordine: le macchine della polizia, che riporteranno a casa la figlia viziata e degenere, hanno sulla portiera l’insegna “Hadley Police”. Una personificazione del mito di Rockfeller citato nel film. Come tanti monarchi della storia Hadley si trova con due eredi al trono degeneri e incapaci.

Questa matrice spaziale della cittadella vede per contrasto spazi alternativi come vie di fuga. C’è la lussuosa dimora bianca dei padroni, la reggia con tanto di quadro dinastico, con un colonnato neoclassicheggiante e la classica rampa di scale sinuosa che separa la parte alta da quella bassa, spazio tipico del genere melò. Ci sono i pub, con i flipper e i juke-box, gli spazi e gli oggetti colorati, le tinte sgargianti e scintillanti al technicolor, i distributori di benzina rossi, i vestiti femminili fucsia: «i colori del XX secolo, i colori dell’America, della civiltà del lusso, che ricordano che viviamo nell’era delle materie plastiche», diceva François Truffaut. Plastiche che sono derivati del petrolio, il trionfo della plastica si accompagna alla civiltà energetica petrolifera. E poi c’è la natura, la casa di campagna in legno, anche questa secondo i tipici stereotipi dell’edilizia americana, e il bosco con il fiume. La natura opposta alla civilizzazione: torna il Sirk ispirato al primitivismo di Thoreau, torna il Sirk con la sua piccola America delle casette dei sobborghi coi giardinetti ben curati, con i giardinieri di cui ci si può innamorare come in Secondo amore. In molti suoi film, come Il capitalista si usa lo stesso set, della cittadina tipica americana, dove compare una Maple street, ovvero “strada degli aceri”. Gli aceri sono quelle piante dai colori autunnali sgargianti che tanto ruolo hanno, per esempio nell’estetica giapponese nella tradizione del momijigari. Così anche quella natura che circonda la civiltà in Come le foglie al vento, quelle fronde agitate dal vento, come a segnalare una montante inquietudine, che si vedono spesso dalle finestre come fossero ulteriori quadri tra le pareti riccamente decorate della villa patrizia. E le foglie morte che pervadono tutto, che entrano in casa, come una rivincita della natura. Segno dell’autunno della vita, di una decadenza, di una fine imminente.

Fassbinder parlava di una distruzione gentile, come operazione che Sirk svolgeva nei confronti dell’ideologia dominante, degli studios e della american way of life, trattandone in forma allusiva le tematiche scomode, gli scheletri nell’armadio. Meno rilevante rispetto ad altri film è l’omosessualità velata, che qui può essere riferita all’amicizia virile tra Mitch e Kyle, un legame antico. Sono entrambi innamorati della stessa donna, Lucy, come se riversassero in lei una reciproca attrazione. La società raccontata dal film è una società patriarcale, fallocratica, dove il potere maschile si combina con quello del capitale. A capo sta il patriarca, Jasper, il fondatore dell’impero economico che si autocelebra con un quadro enorme che sovrasta la grande sala della villa. Quadro che lo ritrae con il modellino fallico di una torre petrolifera, che si raddoppia nel modellino uguale ma reale sulla scrivania posta davanti allo stesso ritratto. Alla fine sarà ironicamente Marylee ad afferrare quel modellino, unica discendente rimasta della stirpe, a rappresentazione del fallimento del patriarcato visto che il padre e il fratello sono morti. Qual è il massimo smacco per un esponente della cultura patriarcale se non quello di non poter generare un erede? La scena in cui il medico ventila a Kyle la possibilità di una sua sterilità, situazione che innesca la drammaturgia, è straordinaria, contrappuntata da un crescendo musicale inquietante mentre Kyle guarda un bambino che si diverte a cavalcare un cavallino da giostra.

A tutto ciò si deve aggiungere la dimensione classista, i neri che rappresentano la servitù come, in questo caso, la coppia dei maggiordomi di casa Hadley, Sam e la moglie. In una dimensione teatrale, come quelle che piacciono tanto a Sirk, rappresentano il ruolo degli spettatori passivi: guardano sbalorditi il melodramma messo in scena dai loro padroni, in una situazione la donna piange capendo la tragedia imminente. Cambieranno ruolo quando a processo renderanno falsa testimonianza, ma poi tutto si ricomporrà nella scena finale dove il domestico apre il cancello al passaggio dell’automobile, reiterando un gesto che si vede per tutto il film. Il suo ruolo di servo è confermato. La condizione classista era già enunciata in una brillante scena verso l’inizio, una sfilata consecutiva di servi alla porta, il portiere d’albergo, il tassista, la hostess sull’aereo. Come le foglie al vento è costruito formalisticamente su una ricchissima intelaiatura di quadri secondari, oggetti ricorrenti (la pistola), simmetrie, specchi, ritratti, imitazioni della vita. Quando Mitch incontra per la prima volta Lucy, nel suo ufficio carico di immagini, i poster pubblicitari e un quadro, di lei vede solo un’immagine parziale, le gambe, subendone subito il fascino erotico. Ancora gambe femminili, ritagliate dall’inquadratura, saranno quelle della scultura nella hall dell’albergo, mentre Marylee, innamorata di Mitch, giocherà con lui in modo virtuale, mostrando le gambe al suo ritratto che tiene in stanza, per poi cambiare idea, stizzita nei suoi confronti, abbassandone il quadretto sul comodino come per non farsi più vedere. Il gioco erotico della donna con l’effigie del suo innamorato tornerà in un’altra sequenza magistrale. L’irrequieta Marylee si spoglia e balla sempre con il quadretto di Mitch, una danza forsennata, quasi un sabba (il brano è Temptation composto da Frank Skinner per il film e poi diventato celeberrimo) non accorgendosi che il padre muore d’infarto proprio all’ultimo gradino della sontuosa scalinata della villa. Questo momento di danza rappresenta peraltro una delle tante perfomance interne di cui è costellato il cinema del teatrante Sirk. Due specchi successivi poi costellano l’uscita di Kyle e il duello tra i due cavalieri, una volta amici: uno dietro la testa di Lucy, a terra dopo le percosse del marito geloso, in una stanza scenograficamente governata da un paravento giapponese, l’altro nel corridoio imboccato dall’uomo verso l’uscita. Il labirinto formale accompagna il groviglio di passioni nella quintessenza del mélo sirkiano.

Info
Come le foglie al vento, il trailer.

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