Picnic

Picnic

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Melodramma addolcito rispetto ad altre opere coeve, Picnic affonda comunque a piene mani tra le ampie crepe del confronto generazionale e sociale, facendo vacillare perbenismo e ipocrisie di varia natura. Attorno al fattore scatenante Hal, incarnato da un William Holden in forma smagliante, gravita un microcosmo femminile a suo modo eterogeneo, reso magnificamente sul grande schermo da Kim Novak, Susan Strasberg, Betty Field e Verna Felton. Un intramontabile classico a stelle e strisce, riproposto dalla rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

Mamma (non) ha ragione

Hal Carter, un aitante vagabondo, arriva in una cittadina del Kansas, in cerca di un impiego stabile, poco prima del tradizionale picnic del Labor Day. Giunto con l’obiettivo di incontrare il suo vecchio compagno di college Alan, figlio di un ricchissimo imprenditore, Hal è aiutato dalla gentile e anziana Helen Potts, che gli affida qualche lavoretto in giardino e lo rimette in sesto. In breve tempo, Hal si accorge di Madge, la bella del paese, che vive vicini alla signora Potts insieme alla guardinga madre e alla sorella minore Millie. Corteggiata da tutti, Madge frequenta proprio Alan, che però non ama, nonostante le insistenti pressioni della madre. Evento centrale della giornata, il grande picnic cittadino sconvolgerà molti equilibri… [sinossi]
Go with him, Madge.
For once in your life,
do something bright.
– Millie.

In corsa per un buon numero di statuette, Picnic dovrà cedere il passo nella notte degli l’Oscar del 1956 a Marty, vita di un timido. Identico destino per Joshua Logan, superato da Delbert Mann. Pur presente nella cinquina per il miglior film anche con L’amore è una cosa meravigliosa di Henry King, William Holden seguirà invece la serata da semplice spettatore. Poco male, in fin dei conti più dei premi può il Tempo. Tra l’altro, di quella lista di vincitori e sconfitti ci interessa soprattutto la folta rappresentanza di melodrammi, ad esempio La valle dell’Eden di Kazan e La rosa tatuata di Daniel Mann (con la statuetta per la migliore attrice ad Anna Magnani). Insomma, siamo nel pieno della stagione dei melodrammi familiari a stelle e strisce, giusto un paio d’anni prima de I peccatori di Peyton di Mark Robson, film che a suo modo contribuirà a chiudere un cerchio – se il melodramma cinematografico, evidentemente più al passo dei tempi rispetto a serie come Papà ha ragione1, è una delle risposte dell’industria hollywoodiana alla minaccia montante del piccolo schermo, il film di Robson sarà involontariamente responsabile del successo delle soap opera da prime-time, che prendono piede sul piccolo schermo proprio sull’onda travolgente di Peyton Place (1964-69).

Pur distante da temi apertamente scabrosi (dello stesso anno è, ad esempio, L’uomo dal braccio d’oro di Otto Preminger) e con toni meno accesi, anche dal punto di vista puramente cromatico, delle mirabilie di Douglas Sirk, Picnic affonda comunque a piene mani tra le ampie crepe del confronto generazionale e sociale, facendo vacillare perbenismo e ipocrisie di varia natura. Nel film di Logan si rovesciano infatti alcuni presupposti apparentemente granitici, a partire dall’idealizzazione della famiglia e della provincia, senza dimenticare la realizzazione economica e professionale, base di partenza del sogno americano.
Si vedano, ad esempio, l’arrivo e la partenza di Hal Carter (William Holden), col treno merci che non è un semplice mezzo di trasporto ma decodifica la cifra umana e sociale del protagonista e dell’intera parabola narrativa. Tra l’altro, la spettacolarità dell’addio di Hal giustifica ampiamente l’utilizzo del CinemaScope, sfruttato egregiamente da Logan: il treno che si allontana, Hal sempre più piccino, un pre-finale che sarebbe potuto tranquillamente essere uno splendido e sospeso finale; nel controcampo, affranta e quasi distesa sul tetto di una capanna degli attrezzi, Madge (Kim Novak, protagonista nel 1955 anche del film di Preminger) risplende in una composizione dell’inquadratura che sembra suggerirci l’impossibilità della fuga dal precedente abbraccio materno – se la macrosequenza del picnic dilata a dismisura tempo e narrazione, portando quasi personaggi e spettatori in un luogo altro, la sequenza della partenza di Hal è un pregevole concentrato melodrammatico, risolto da gesti giustamente enfatizzati come il voltarsi di spalle di Millie (Susan Strasberg), l’abbraccio della madre Flo (Betty Field) e la corsa verso il treno di Hal mentre con tono crescente ripete e infine grida «You love me».

In una fase oramai calante della censura, Picnic non si prende comunque troppe libertà, limitandosi a mettere in mostra la fisicità di Holden e dando libero sfogo ad alcune frustrazioni represse durante la serata\nottata della festa campestre. Ed è qui, durante gli interminabili festeggiamenti, che inizia a prendere forma il lieto fine della storia d’amore, in questa dimensione che è sospesa, in parte quasi favolistica, come se fossimo entrati in un altro villaggio alla Brigadoon. Rispetto ad altre opere coeve, il film di Logan è un melodramma smussato, addolcito, ma altrettanto indicativo del periodo storico e dei cambiamenti in atto. Si veda, ad esempio, la sagace contrapposizione, con le due sequenze collocate una dopo l’altra, del microcosmo femminile e del macrocosmo maschile. Da un lato, con un confine tracciato da poche case e dalla emblematica ferrovia, il piccolo regno rurale e generazionale di Helen Potts (Verna Felton), Flo, Madge e Millie – con Rosemary (Rosalind Russell) ancora zitella e quindi scheggia impazzita. Dall’altra, dalla magniloquente villa alla gigantesca azienda di Mr. Benson (Raymond Bailey), la rappresentazione dei luoghi esclusivamente maschili, del loro successo, dell’apice, del capitalismo nella sua dimensione più compiuta – e anche dello svelamento dell’ipocrisia del sogno americano e dell’invalicabilità delle barriere sociali.
Se la brutale imponenza dell’azienda agricola di famiglia, con Alan simbolicamente chiamato dall’alto della torre («Signor Benson!»), è come una pietra tombale posta sulle aspirazioni di Hal, nella dimora allargata delle donne e ragazze la partita è aperta e più articolata. Helen, Flo, Madge, Millie e Rosemary coprono un ampio ventaglio di tipologie femminili, esaurendo sostanzialmente tutte le possibilità allora concesse dal comune senso del pudore: nonna (e badante), mamma, figlia, insegnante. Sposata e zitella, che ovviamente brama il matrimonio. Ma soprattutto due contrapposizioni: la bella del paese Madge, meravigliosa ma sciocca, e la secchiona ma bruttina Millie (ovviamente non bastano trecce, occhiali e vestiti da maschiaccio a mascherare l’avvenenza della giovane Strasberg, ma il senso è chiaro); l’innamorata Madge, dominata dai sentimenti più che dai calcoli, e la madre Flo, amorevole e anche per questo ancorata all’idea del buon partito – emblematica l’incomprensione tra madre e figlia sul senso di quel «It seems to me you could at least…», con la madre che forse non ha ancora letto Sexual Behaviour in the Human Female (1953) o forse l’ha letto troppe volte. Ma più che al sesso e al desiderio, seppur non celato, Picnic guarda ancora all’amore, a quel sogno che non ha bisogno di grandi imprese. A volte basta avere il coraggio di salire su un autobus.

Note
1 Cfr. Barbara Klinger, Il melodramma hollywoodiano per adulti degli anni Cinquanta, «Lo Specchio Scuro», specchioscuro.it.
Info
Il trailer di Picnic.

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