Gioventù bruciata

Gioventù bruciata

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Primo melodramma e primo CinemaScope per Nicholas Ray, Gioventù bruciata è il ritratto realistico/iperrealista di una generazione di giovani che, sentendosi confusa e incompresa, veniva per la prima volta alla ribalta, con violenza, tanto nella realtà quanto al cinema. Un film concepito in uno stato di grazia, seppure all’interno di un sistema conservatore come quello hollywoodiano, grazie al valore altissimo dei contributi di tutti i collaboratori, in primo luogo – ma non esclusivamente – della sua giovane star, James Dean.

In a lonely place (il rosso e il blu)

Jim Stark è appena arrivato in città assieme alla sua famiglia. Arrestato per ubriachezza, vive un conflitto perenne coi suoi genitori che lo porta ad avere comportamenti che sfociano nella violenza. Nella nuova scuola incontra la bella Judy e l’introverso Plato, scansato da tutti. Judy fa parte di una banda di giovani delinquenti capitanata da Buzz che subito prende di mira il nuovo arrivato. [sinossi]

“Lavorare con Jimmy significava esplorare la sua natura; senza questo il suo potenziale espressivo rimaneva congelato. Voleva fare film in cui credere fino in fondo, ma questa non era mai stata una cosa semplice per lui. Tra la convinzione e l’azione si ergeva l’ostacolo della propria profonda e oscura incertezza. Deluso e insoddisfatto, Jim era come un bambino che si nasconde nel suo angolo e si rifiuta di parlare”.
“Gioventù bruciata è il film che mi ha più completamente soddisfatto.”[dichiarazioni tratte da: Nicholas Ray, Sono stato interrotto, Bompiani, 1993, e Stefano Masi, Nicholas Ray, Il Castoro, 1995, p. 4]

Nella metà degli anni Cinquanta la società americana si godeva il proprio benessere e la supremazia economica, ma sotto la superficie covavano ansie e malesseri. Il mondo costruito dagli adulti e i loro valori non davano più alcuna sicurezza ai giovani, che iniziavano a farsi sentire e ad emergere, per la prima volta, come soggetti sociali con le loro proprie esigenze. Il pregiudizio comune pretendeva che la violenza giovanile germogliasse unicamente negli ambienti più poveri e degradati, ma Ray sapeva che non era così. Per questo fece del suo protagonista il tipico adolescente della media borghesia. Era inoltre un suo preciso desiderio quello di realizzare un film in cui il punto di vista dominante fosse non quello degli adulti, ma dei giovani: i loro valori, le loro richieste, il loro sguardo sul mondo. Gioventù bruciata – con più forza ancora di titoli come ll selvaggio (The Wild One, 1953, László Benedek) o La valle dell’Eden (East of Eden, 1955, Elia Kazan) – è innanzitutto l’istantanea di questo affacciarsi prepotentemente alla ribalta da parte dei giovani. Il cinema americano non si era mai occupato di loro in maniera così diretta, sincera e penetrante, e fu senz’altro questo uno dei motivi principali per cui Gioventù bruciata divenne il maggior successo commerciale di Nicholas Ray, nonché il suo preferito. Fu Nicholas Ray a presentare alla Warner un trattamento dal titolo Blind Run (Corsa cieca), che raccontava tre episodi di violenza giovanile, l’ultimo dei quali riguardante una corsa mortale in un tunnel del Mulholland Drive. Ray si era ispirato a fatti accaduti realmente e a delle ricerche che aveva compiuto nei centri di detenzione giovanile. La Warner accettò il soggetto, ma gli affidò uno sceneggiatore per riscrivere la trama e decise di sostituire il titolo con quello di un saggio psicanalitico di Robert Lindner di cui lo studio possedeva i diritti: Rebel Without a Cause.

Per certi versi, si possono ritenere predecessori di Jim Stark il bandito Bowie Bowers di La donna del bandito (They Live by Night, 1947), interpretato da Farley Granger, ma anche il detenuto Nick Romano di I bassifondi di San Francisco (Knock on Any Door, 1949) e il cowboy Davey Bishop di All’ombra del patibolo (Run for Cover, 1955), entrambi interpretati da John Derek. Personaggi e attori che però non riuscirono a imporsi come vere e proprie icone generazionali, come invece accadde conil protagonista di Gioventù bruciata. James Dean era appena divenuto una star grazie a La valle dell’Eden, dell’amico e mentore di Ray, Elia Kazan, per il quale Ray aveva recitato a Broadway per poi diventare il suo assistente alla regia in Un albero cresce a Brooklyn (A Tree Grows in Brooklyn, 1945). Il metodo di lavoro di Ray, sempre permeabile alle suggestioni e ai suggerimenti delle persone con cui lavorava, attrasse Dean e i due lavorarono insieme per delineare al meglio un personaggio modellandolo inevitabilmente sulla complessa personalità del giovane attore. L’intuito e la fisicità di James Dean furono determinanti per l’esito prodigioso del film. Prima dell’exploit di Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar Named Desire, 1951), salvo rare eccezioni, la recitazione americana tipica appariva piuttosto statica. Gli attori spesso pronunciavano le loro battute con le braccia lungo i fianchi, lo sguardo fisso negli occhi dell’interlocutore. Il contenuto del dialogo deteneva la priorità assoluta. Ma con la nuova leva di attori usciti dall’Actor’s Studio, qualcosa cambia irreversibilmente: gli occhi vagano irrequieti sul pavimento, il soffitto, il fuori campo, i gesti sembrano “scollarsi” dalle parole per rivelare il non detto, rendendo in qualche modo visibili i pensieri, la sfera interiore. Il corpo diventa lo strumento centrale della performance, trova un suo proprio linguaggio, la recitazione si fa fisica, tattile, prima ancora che verbale. Rifuggendo convenzioni e stereotipi, l’attore va in cerca di quella verità che esiste solamente dentro di sé. Di conseguenza, l’improvvisazione diventa necessariamente un momento centrale nella costruzione del personaggio e del film.

La prima versione della sceneggiatura, ad opera di Irving Shulman, non piacque a Ray, che la fece riscrivere integralmente dal più giovane Stewart Stern. Uno dei punti di forza di Gioventù bruciata è la sua peculiare struttura, suddivisa in otto macro-sequenze principali che si articolano nell’arco di circa 24 ore in un numero ridotto di set e location. La magnifica sequenza d’apertura, che dura oltre diciotto minuti (all’incirca un sesto dell’intera pellicola!), proietta lo spettatore in medias res. Dapprima un breve incipit notturno, mentre compaiono i titoli di testain rosso (sul rosso torneremo), in cui Jim Stark si sdraia in mezzo alla strada, ubriaco, dopo aver trovato una scimmia giocattolo che suona i piatti, e la copre con un giornale come per proteggerla dal freddo: un atteggiamento che suggerisce già il carattere di Jim, il suo bisogno di amare ed essere amato. Successivamente, la scena si sposta in commissariato, dove il ragazzo, trascinato da due poliziotti, incrocia Judy (Natalie Wood) e Plato (Sal Mineo), senza ancora conoscerli. Anziché privilegiare il primo piano indugiando sugli attori, la macchina da presa di Ray vaga dall’uno all’altro in mezzo alle comparse, utilizzando le superfici in vetro dell’ufficio per creare fra loro al tempo stesso connessione e separazione, come avrebbe fatto Altman vent’anni dopo. Tutti e tre questi “ribelli senza un motivo” sono in stato di fermo per comportamenti antisociali. La verità è che ciascuno di loro vive psicologicamente in a lonely place, in un luogo solitario, desolato, ma nessuno degli adulti sembra accorgersene. La sequenza del commissariato dice molto su Jim, le sue esplosioni di violenza derivano dall’insofferenza che prova nei confronti delle dinamiche relazionali che avvengono fra lui, la madre, il padre e la nonna, dinamiche dalle quali il padre esce sempre sopraffatto e sconfitto, quando non “femminilizzato” (più avanti comparirà significativamente con un grembiule a fiori mentre raccoglie carponi il cibo caduto a terra da un vassoio). “Mi fate impazzire!” (“You’re tearing me apart!”) urla Jim, quando i famigliari, una volta giunti sul posto, si mettono a discutere davanti a lui. Jim vorrebbe una figura paterna forte dalla quale ottenere le risposte che gli servono per muoversi nel mondo. Una guida che trova provvisoriamente in un funzionario della divisione giovanile, non prima di avere provato a colpirlo, finendo invece per terra. “Se solo sentissi di appartenere a un posto, allora…”, gli confida a un certo punto. Jim crede che essere uomini equivalga a non passare per “conigli”, quando invece la forza ce l’ha già dentro, sotto forma di sensibilità, gentilezza, affidabilità, che sono poi le vere qualità a costituire la forza di un uomo: sarà proprio Judy a farglielo capire, nella seconda parte del film.

Plato è un ragazzo sperduto, ancora più bisognoso di Jim di un modello maschile di riferimento. Plato, il cui vero nome è John Crawford, abbandonato dal padre e con la madre sempre in giro per il mondo, è affidato alle cure di una tata che lo ama ma che non può supplire al vuoto interiore che divora il ragazzo. Quanto a Judy, è una sedicenne ripetutamente ferita da un padre anaffettivo (William Hopper) incapace di ricambiare i suoi gesti d’affetto, e anzi la respinge malamente, fino al punto da rispondere a un suo bacio con uno schiaffo. La frustrazione giovanile trova sfogo nel bullismo. La cricca di cui fa parte Judy è capitanata da Buzz (Corey Allen) e si esibisce in comportamenti delinquenziali che manifestano rabbia cieca e inconsapevolezza (fra loro c’è anche un diciottenne Dennis Hopper). lo stesso Buzz è talmente preso dal suo ruolo di capobanda che, avvertendo nel timido ma carismatico Jim un potenziale rivale, lo prende di mira coinvolgendolo dapprima in un duello all’arma bianca, poi nella chickee run (che prese il posto della blind run). Per il duello, molto coreografico, quasi un numero da musical con un certo grado di astrazione (cui concorre un montaggio che alterna piani ravvicinati a totali angolati dall’alto), furono utilizzati dei veri coltelli a serramanico dalla lama smussata e i due attori indossavano delle protezioni al torace sotto agli indumenti. Gli attimi che precedono la spettacolare corsa mortale sono stati ripresi poi in un’infinità di film successivi, in particolare divenne subito iconica la figura di Judy, illuminata dai fari delle auto e stagliata contro la notte, che solleva le braccia e poi le abbassa come segnale d’inizio della corsa, con le auto di Jim e Buzz che le sfrecciano accanto. Prima della corsa, mentre guardano giù dalla scogliera, Buzz parla a Jim sinceramente e senza più animosità, come fossero amici. “Allora perché facciamo tutto questo?”, chiede Jim. E Buzz risponde: “Qualcosa dobbiamo pur fare, no?”. Nel nulla che li attanaglia, nell’assenza di valide risposte, non resta che la lotta, come pesci combattenti in un acquario. È precisamente il concetto alla base dei due formidabili film “gemelli” del 1983, I ragazzi della 56° strada (The Outsiders) e Rusty il selvaggio (Rumble Fish), che Francis F. Coppola concepì come omaggio al cinema degli anni Cinquanta-Sessanta. A Ray, la violenza di per sé, intesa come motore dell’azione, non interessa. A motivarlo è invece la violenza come conflitto interiore, come materiale ad alto potenziale esplosivo, coacervo di insicurezze e inesplicabili tormenti. La violenza, in Gioventù bruciata, non ha luogo solo per strada, ma persino nel luogo più sacro dell’istituzione borghese, e cioè in seno alla famiglia: dopo la tragica morte di Buzz, Jim vorrebbe comportarsi da uomo, affrontare le proprie responsabilità e costituirsi, ma i genitori vorrebbero invece insabbiare il tutto. Jim insiste, la madre ribatte, il padre tace. Esasperato dall’ennesimo deficit di autorità del padre, dalla sua incapacità cronica di fornire risposte dirette e soluzioni adeguate, all’improvviso Jim lo solleva e lo scaraventa su una poltrona rovesciandola a terra e quasi lo strangola, per poi fuggire via. Una violenza inaudita da parte di un figlio nei confronti del proprio genitore che la dice lunga sull’effetto-realtà che Ray voleva imprimere al suo film. Questa esplosione è preceduta da un dialogo piuttosto lungo che inizia nel salotto e termina su una rampa di scale – elemento scenografico nevralgico nel cinema di Ray, spesso teatro di conflitti – e risolto spesso in piano sequenza, onde lasciare libero sfogo alla performance attoriale di Dean e al crescendo di tensione.

Effetto realtà, ma non realismo, inteso come rispetto delle convenzioni di un sistema narrativo collaudato, ovvero classico. Lo stile di Ray ricorre a procedimenti espressivi che sottolineano la componente emotiva dei personaggi e dell’azione rendendo molti dei suoi film fortemente stilizzati, a prescindere dai generi (un esempio per tutti: Johnny Guitar, del 1954, il cui omonimo protagonista fra l’altro condivide con Jim Stark sia un passato violento sia la riluttanza alla violenza). Uno di questi procedimenti è l’uso di inquadrature “eccentriche”. Se ne vede un primo caso proprio all’inizio della sequenza sopra descritta: Jim torna a casa. Il padre è addormentato su una poltrona e lui si sdraia sul divano. La madre scende le scale, ma appare capovolta, perché Jim è sdraiato e la ripresa avviene in soggettiva e perciò dal suo punto di vista; subito dopo, mentre lui si solleva per sedersi, la macchina da presa ruota di 180 gradi “raddrizzando” l’immagine della madre. Ray replicherà questo espediente nel successivo La donna venduta (Hot Blood, 1956). Qualcosa di simile avviene anche alla fine del film, quando Plato viene raggiunto dal proiettile sparato da un poliziotto. Per un attimo la macchina da presa ondeggia e si inclina sul suo asse, come se avesse subito anch’essa il colpo mortale. Non si tratta di una soggettiva, stavolta, ma di una sorta di ripresa “empatica”, inattesa e perciò sconcertante, che amplifica la portata tragica dell’evento in maniera quasi sensoriale. Un altro procedimento espressivo è l’uso del colore, in particolare il rosso. Inizialmente, per Gioventù bruciata era stato preventivato il bianco e nero e le riprese erano iniziate già da alcuni giorni, quando la Warner decise di ripartire daccapo usando il Warner Color e il formato CinemaScope, che Ray si trovò a utilizzare per la prima volta. Come avverrà nel successivo Dietro lo specchio (Bigger Than Life, 1956) e in altre opere, Ray si concentra sul rosso: non solo il giubbotto di Jim (che indossa nella seconda parte del film, dopo la lite furibonda coi genitori), ma anche il fiocco e il rossetto di Judy. Inizialmente anche lei appare con un soprabito rosso vivo, a evidenziare il suo stato di ribellione, eccitazione e seduzione aggressiva; in seguito la ragazza indosserà indumenti dai colori più tenui per connotare la svolta romantica fra lei e Jim, nonché la vera natura di Judy, quella di una ragazza dolce e sensibile (lo si vede anche nel suo comportamento affettuoso col fratellino Beau). Nel suo saggio del 2010, Chromatic Cinema, Richard Misek scrive che il rosso, già a partire dal cinema muto degli anni Venti, poteva essere usato per indicare non solo il fuoco e il calore, ma anche motivi psicologici come la rabbia. Sottolinea però anche come i colori rifuggano da un significato univoco e definitivo. Come hanno spiegato sia Godard che Deleuze, il colore vale in primo luogo per se stesso, imponendosi sui sensi prima ancora che sul piano simbolico. Da qui la chiosa dello stesso Ray: “Al cinema l’uso di un colore primario è significativo quanto quello di un primo piano”. [Nicholas Ray, Sono stato interrotto, a cura di Susan Ray, Bompiani, 2011].

Il ricorso simbolico e allegorico agli animali percorre l’intero film: dalla costellazione del toro al “muggito” scherzoso di Jim al planetario con cui prova a inserirsi nella banda di Buzz e Judy, da cui si invece scaturisce il duello coi coltelli, durante il quale Buzz si finge il toreador schivando i colpi del “toro” Jim; Jim che scatta ogni volta che si sente dare del “coniglio” e la sfida della chickee run (da “chicken”, “pollo”, ma nella versione italiana è la “corsa dei conigli”) che quindi, per motivi d’onore, non può evitare; e ancora, la gallina impiccata che alcuni membri della banda piazzano davanti alla casa degli Stark. Tutti questi elementi richiamano un mondo giovanile tribale, primitivo e appunto animalesco, che va a contrapporsi a quello “civilizzato” ma di fatto inerte degli adulti, con le loro frasi fatte e la loro ipocrisia. Il planetario, ovvero il Griffith Observatory, entra in scena per ben due volte. Nella prima, gli studenti stanno seguendo la lezione di un professore che illustra loro le costellazioni e la vita del cosmo. Gli studenti sono presi dai loro scherzi e motteggi, ma la voce in sottofondo va a incrementare quel senso di solitudine e smarrimento che permea sottopelle le vite dei ragazzi mettendolo in relazione alle leggi del cosmo, che appaiono altrettanto cieche, implacabili e senza scopo. E l’immagine della Terra che esplode ponendo fine alla vita umana è un cupo presagio dell’esplosione dell’automobile di Buzz dopo essere precipitata dalla scogliera, nonché della morte di Plato, che avverrà proprio sui gradini esterni del planetario. Oltre al planetario, l’altra location losangelina reale resa celebra dal film è la “villa abbandonata”, ovvero la William O. Jenkins House, già immortalata da Billy Wilder in Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950), solo che qui la piscina è vuota. È in questo (non) luogo che Jim, Judy e Plato trovano rifugio e speranza, creando un nucleo famigliare surrogato, in sostituzione di quello difettoso o inesistente costituito dalle rispettive famiglie d’origine. Qui, nella sospensione quasi irreale di quella seconda e ultima notte, i tre giovani si ritrovano in uno spazio-tempo utopico e finalmente condiviso: lo sceneggiatore Stewart Stern dichiarò in un’intervista di esseri ispirato ai personaggi creati da J. M. Barrie, facendo di Jim, Judy e Plato la reinterpretazione di Peter Pan, Wendy e di uno dei bimbi smarriti nell’Isola che non c’è. Al rosso si unisce ora il blu: un mélange tonale che accentua figurativamente quell’atmosfera fiabesca e irreale in cui i tre possono sognare insieme e reinventarsi. È il blu scuro della notte che proviene dall’esterno attraverso le vetrate della casa, ma è anche il blu di uno dei due calzini spaiati indossati sbadatamente da Plato (l’altro ovviamente è rosso), a sottolineare ulteriormente lo stato di dissociazione del ragazzo. Che però, almeno per quel breve momento, è felice. Ha trovato la sua famiglia e, in Jim, la figura paterna che gli è sempre mancata. Quella nella villa è una parentesi, un attimo di perfetta felicità prima della tragedia, che, nelle intenzioni originali degli autori, avrebbe dovuto abbattersi sullo stesso Jim, oltre che su Plato. Ma in tal modo, uscendone vivo, Jim può pronunciare una delle battute più belle del film: nel momento in cui, con dolcezza, allaccia la lampo del suo giubbotto, che aveva dato poco prima a Plato, mormorando: “Aveva sempre tanto freddo”. Ma ora Jim ha Judy e Judy ha Jim. E il padre di lui si mostra improvvisamente forte e all’altezza e riesce persino a tenere a bada la moglie. Un lieto fine hollywoodiano, posticcio, non dissimile da quello di Dietro lo specchio, che tuttavia non cancella minimamente il senso di desolazione che permea le vite di quei giovani.

Gioventù bruciata uscì sugli schermi americani il 26 ottobre 1955, a quasi un mese esatto dalla morte prematura di James Dean, schiantatosi sulla sua Porsche 550 Spyder mentre era diretto a Salinas per una gara automobilistica. Sal Mineo fu ucciso nel 1976, all’età di trentasette anni, probabilmente vittima di violenza omofoba. Cinque anni e mezzo dopo toccò a Natalie Wood, che annegò al largo dell’isola di Santa Catalina, in circostanze mai chiarite, a soli 43 anni.

Info
Gioventù bruciata, il trailer.

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