The Apprentice

The Apprentice

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Non sono poche le ambizioni che agitano il nuovo film di Ali Abbasi, che con The Apprentice racconta l’ascesa al potere economico del giovane Donald Trump. Le intenzioni del regista iraniano naturalizzato danese risultano però confuse, e la scelta estetica operata scalfisce solo la superficie, risultando esornativa. In concorso a Cannes 2024.

Il maestro e Donald Trump

New York, primi anni ’70: il giovane immobiliarista Donald Trump conosce l’avvocato Roy Cohn, maestro del ricatto e dello sprezzo per le istituzioni, che lo prende sotto la sua ala protettrice e lo aiuta nella sua inarrestabile ascesa. [sinossi]

The Apprentice era il titolo del reality prodotto e condotto tra gli altri da Donald Trump nei primi anni Duemila: il format vedeva alcuni concorrenti lottare per una posizione importante all’interno di un’azienda quale, per esempio, quella del futuro 45° Presidente degli Stati Uniti (l’idea del talent è stata ripresa in Italia dall’amico Briatore perché, si sa, chi si somiglia si piglia). Il regista di origine iraniana e naturalizzato danese Ali Abbasi intitola The Apprentice il suo ambiziosissimo film sull’ascesa di Trump nella New York (ricreata a Toronto) dei primi anni ’70, ma in questo caso “l’apprendista” è proprio lui, il giovane Donald (interpretato da Sebastian Stan), che impara a farsi largo nell’agone degli affari e soprattutto dei malaffari della città. Se c’è un allievo, il più delle volte c’è anche un maestro e in questo caso ce n’è uno cattivissimo ossia l’avvocato Roy Cohn (1927-1986), fervente anticomunista, giovane assistente del senatore McCarthy nella “caccia alle streghe” e fiero fautore dell’impiccagione dei coniugi Rosenberg, infine prezzolatissimo legale di varia ma sempre danarosa umanità (dalla mafia a Onassis passando per Andy Warhol). A dare corpo a Cohn nel film è il bravo Jeremy Strong: le prime sequenze sembrano un’involontaria puntata di Succession sebbene guardino a Scorsese mentre nella seconda parte Abbasi intende riprodurre l’impressione degli anni ’80 sia nel formato che nella resa visiva che ricalca la televisione dell’epoca, le vhs e i telefilm di moda in quegi anni (da Dallas in giù). La prima metà, ambientata negli anni ’70, vuole al contrario restituire la grana della pellicola cinematografica d’antan con colori dunque differenti rispetto al proseguo. E per traghettare gli anni l’uno dopo l’altro si fa copioso ricorso a canzoni famose (da Yes Sir, I can Boogiedi Baccara ai Pet Shop Boys) che diventano “marcatori” del tempo che passa come spesso accade quando non ci si concentra su niente in particolare in una narrazione cui servono spesso sequenze di montaggio.

Gli Usa sono un Paese corrotto, New York è una città infetta e Donald Trump non è altro che il frutto marcio di un sistema putrescente: Abbasi cerca evidentemente di raccontare il momento in cui (il film copre un periodo che va dal 1971 al 1986) l’etica del capitalismo è così matura da poter divenire finalmente quel che è sempre stata ossia una lotta senza quartiere dei violenti contro i mansueti (o perdenti) all’interno di un’anarchia ben controllata da chi detiene il potere. Trump è l’esito inevitabile delle prassi interne e tutto questo, ancor prima dell’ingresso alla Casa Bianca dell’immobiliarista, è già perfettamente rappresentato da Ronald Reagan, simbolo di quegli ’80 usciti trionfanti dalla Storia e oggi vicini a noi più che mai. Bene: il “messaggio” politico deducibile dal racconto di Abbasi pare questo. Ma The Apprentice non approfondisce nessun aspetto del materiale che ha per le mani ricordando in qualche modo Limonov: The Ballad di Serebrennikov, entrambi in Concorso a Cannes, entrambi due superficiali panoramiche su personaggi e mondi densissimi ed entrambi affascinati – per ragioni assai differenti – dalla Grande Mela degli anni ’70, quelli di Taxi Driver e dei debiti delle casse pubbliche. Se Abbasi non è tenero con il contesto che ha ineluttabilmente creato Trump, sua massima e più intima espressione, purtroppo il suo lavoro non riesce a entrare in contatto con un personaggio ridotto a macchietta e dall’evoluzione fatta a colpi di singulti. Donald incontra Cohn quando è ancora un ventenne e da lui apprende i tre segreti del successo: attaccare sempre il nemico; negare sempre ogni accusa; non ammettere mai la sconfitta. L’avvocato che consegna a Donald i fondamentali della “post-verità” è un farabutto capace di corrompere chiunque nelle istituzioni, dove nessuno è lindo e pinto – del resto Cohn registra tutte le proprie conversazioni, come Hoover insegnava –, e prende sotto la sua ala un giovanotto deciso a fare soldi come unico obiettivo ma ancora da sgrezzare, formare e instradare verso la via che conduce ai miliardi. Nel passare del tempo Trump diventa improvvisamente un mostro e Cohn – anche a causa della misteriosa malattia che ha contratto, l’Hiv – si sente tradito e umanamente ferito da quello che, incredibilmente, considerava un amico fedele laddove lui stesso gli ha insegnato a essere il più feroce approfittatore della città di New York, un posto dove nessuno è amico di nessuno. A un certo punto in The Apprentice c’è uno scarto immotivato, una curva esponenziale che non regge dal punto di vista narrativo: Donald impara tutto dal disumano Cohn che gli permette di non pagare milioni di dollari alle casse comunali per costruire la Trump Tower, poi conosce la prima moglie Ivana (Maria Bakalova) di cui si innamora perdutamente e porta l’immobiliare di famiglia nel giro dei grandi imperi. Dopo i primi successi, il ragazzo determinato a spremere ogni dollaro del sistema si rivela un animale che detesta la consorte e allontana chi gli ha spianato la rotta: Cohn, che è segretamente innamorato di Donald, ci rimane persino male ma a questo punto l’allievo ha di gran lunga superato il maestro. Oltre alle relazioni con il legale e con Ivana, il film tratteggia anche i rapporti di Trump con la famiglia d’origine compresa la morte del fratello maggiore, Fred Jr., un alcolizzato e un fallito, ma tutto quel che Donald va ripetendo dall’inizio alla fine è che il mondo si divide in due categorie: i killer e i perdenti e lui, da vero killer, rappresenta l’essenza vita, l’elemento naturale senza sovrastrutture.

A film finito vien da chiedersi quale sia il senso nel realizzare un biopic privo di nuance su Donald Trump, cioè un resoconto lineare dell’ascesa di una delle personalità viventi più importanti e pericolose del pianeta. Perché mostrarci come ha conquistato Ivana per poi stancarsene come di un abito vecchio o come sia diventato un simbolo con la sua Torre sulla Quinta Strada per poi passare ai Casinò di Atlantic City senza avere un’ipotesi di lettura oltre all’idea che Trump sia un animale? L’unica traccia data da The Apprentice è che l’ex Presidente sia malvagio cioè un esemplare della specie dotato di peculiare crudeltà e che questo, in fondo, corrisponda persino alla purezza dell’umano incontrando inoltre l’essenza della cultura a Stelle e strisce e motivando così la ragione del suo straordinario successo. Come i grandi dittatori o i grandi condottieri, Trump vede la conquista (dei miliardi, qui nello specifico) come obiettivo in sé e per sé dunque come una forma d’arte – non è un caso che nel film faccia capolino Andy Warhol – e, affermandolo esplicitamente nell’ultima scena, vien quasi da comprenderlo: per quanto sgradevole, è lui il protagonista, un antieroe che ha istintivamente carpito l’essenza del Paese in cui vive e probabilmente della natura umana stessa. Cohn, che Trump alla fine tratta male e umilia, è stato un criminale fatto e finito, il padre di Donald una persona priva di empatia e Ivana di certo ha tratto qualche beneficio dal matrimonio: completamente fuori campo resta però il vasto “mondo” che Trump depreca, quello mostrato per esempio da Hospital (1970) di Frederick Wiseman, documentario su un ospedale pubblico a New York ossia racconto proprio di quei servizi che Trump e Cohn hanno come obiettivo di smantellare nel nome della “libertà”. La scelta di rappresentare Trump come un ente puro e privo di psicologia unita al non far entrare mai nel film “i perdenti” della società, finisce paradossalmente per rendere il protagonista di The Apprentice non peggiore degli altri ma il più “bravo” di tutti. Quello destinato a vincere il reality. Senza voler fare la morale al regista, ci si chiede perché realizzare un film del genere, a maggior ragione se meramente cronachistico e volutamente basico come una puntata di Dynasty ma con Ivana al posto di Joan Collins.

Info
The Apprentice sul sito del Festival di Cannes.

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