Le Comte de Monte-Cristo

Con Le Comte de Monte-Cristo la coppia di cineasti transalpini composta da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte riporta sullo schermo uno dei più celebri feuilleton di Alexandre Dumas; peccato che delle superbe pagine del grande romanziere non resti qui che l’intreccio, e poco più. Nel fuori concorso a Cannes 2024.

Alla conquista del Dumas-verse!

Edmond Dantès, un giovane marinaio di 19 anni, arriva a Marsiglia per fidanzarsi con la bella catalana Mercédès Herrera. Tradito da un amico geloso, viene denunciato come cospiratore bonapartista e imprigionato. Dopo 14 anni riesce a fuggire e si impossessa di un tesoro nascosto nell’isola di Montecristo. Ora l’unico desiderio rimasto è quello di vendicarsi di chi lo ha accusato ingiustamente. [sinossi]

«Il 24 febbraio 1815 la vedetta di Nostra Signora della Guardia segnalò il tre-alberi Pharaon che arrivava da Smirne, via Trieste e Napoli. Come al solito, un pilota costiero partì immediatamente dal porto, costeggiò il castello d’If e raggiunse la nave tra il Capo Morgiou e l’isola di Rion. E tosto, come al solito, il belvedere del forte Saint-Jean si riempì di curiosi poiché a Marsiglia l’arrivo di un bastimento, soprattutto se è stato costruito, attrezzato e stivato nei cantieri della vecchia Fhochée e appartiene a un armatore della città, è sempre un grande avvenimento». Così principia, nella traduzione recente eppur fedele della lingua dell’epoca di Giovanni Ferrero, Il conte di Montecristo, capolavoro del feuilleton francese a firma di Alexandre Dumas che vide la luce a puntate tra il 1844 e il 1846, un paio d’anni prima che la cosiddetta “Campagne des banquets” esplodesse Oltralpe nell’insieme di rivoluzioni e richiesta di riforme a carattere europeo conosciuto come la Primavera dei Popoli. Il testo di Dumas non si muove in simile direzione né ne anticipa i contenuti, eppure in questo avventuroso romanzo d’appendice capace di lasciare senza fiato lo spettatore a ogni terminar di capitolo si respira già un’aria contestataria, che mette alla berlina il regno, le sue abitudini, una borghesia che pensa solo ad arricchirsi e passeggerebbe anche sul cadavere di un amico, o di un proprio congiunto pur di poter mettere le mani sul potere. In questo senso appare calzante, quando non propriamente fedele, il geniale adattamento televisivo che nel 1997 firmò Ugo Gregoretti (Il conto Montecristo), con Dantes che da marinaio diventa pilota civile e invece di un tesoro nascosto su un’isola dalle parti della Sardegna scopre l’esistenza di un conto bancario presso un paradiso fiscale caraibico, con tutto quel che ne consegue. Dopotutto si sa, la narrativa popolare ha il pregio di potersi adattare nel corso dei decenni e dei secoli, e dunque di proseguire il proprio “compito” ben al di là dell’epoca in cui è stata portata a termine (in tal senso si rilegga il pensiero di Antonio Gramsci a riguardo).

Anche per questo non sorprende che dopo il dittico dedicato ai Tre moschettieri (D’Artagnan e Milady) Pathé Films insieme ad altre realtà produttive ci abbiano preso gusto e si siano lanciati in un vero e proprio Dumas-verse, universo dumasiano a sé stante su cui innestare l’immaginario cinematografico odierno. Ecco dunque che a Cannes, nel folto fuori concorso, è apparso anche Le Comte de Monte-Cristo, diretto a quattro mani da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte che dei due film dedicati da Martin Bourboulon ai fedelissimi del re erano stati sceneggiatori. Con un cast di primo piano per il divismo transalpino, da Pierre Niney – a dire il vero un po’ spaesato nei panni di Edmond Dantès – ad Anaïs Demoustier, da Anamaria Vartolomei all’italiano ma oramai internazionale Piefrancesco Favino (che ovviamente interpreta l’abate Faria trasmettendo a uno dei personaggi indimenticabili del romanzo una forte carica empatica), Le Comte de Monte-Cristo conferma la volontà dell’industria francese di osare, muovendosi nel campo della spettacolarità a partire però dalle radici culturali interne, e dalla storia della propria nazione. Un progetto cinematografico affatto peregrino, e anzi che si pone come interessante caso di studio per cercare di donare nuova centralità al grande schermo – appare in effetti barbarico ipotizzare la visione su supporti personali di un film che fa dell’azione uno dei suoi principali centri nevralgici – in un sistema europeo che sta faticando non poco a ritrovare il proprio pubblico dopo gli eventi pandemici. Semmai a lasciare dubbi è proprio il modo in cui La Patellière e Delaporte hanno inteso trovare un punto di contatto tra il testo originale e le necessità odierne: contrariamente a quanto avveniva con i moschettieri le disavventure di Dantès patiscono un certo affanno nel rutilare dell’azione, anche perché la psicologia dei personaggi – a partire paradossalmente proprio dal protagonista – sembra annullata, o almeno fortemente depotenziata. Dopotutto dei personaggi secondari non si sa molto, né si indaga l’intimo desiderio anche di una figura centrale come quella di Mercédès de Morcerf, la catalana che dovrebbe sposare Edmond ma poi, dopo la di lui prigionia, si convince a essere impalmata dal perfido Fernand de Morcerf, che si finge amico di Dantès ma è stato proprio il responsabile del suo arresto.

Il susseguirsi di colpi di scena che sulla pagina scritta spingono il lettore a non abbandonare mai il volume si tramutano sullo schermo in una meccanica dell’azione stantia, a tratti persino quasi statica, che trova sì giovamento in un comparto produttivo scintillante ma non ha anima, non ha davvero corpo, e si limita al suo essere inevitabilmente spettacolare. Durante il festival di Cannes ha fatto un certo effetto imbattersi nella sequenza del naufragio su cui si apre Le Comte de Monte-Cristo dopo aver rivisto, in apertura di kermesse, la stratosferica lotta tra Napoleone e le onde del Mediterraneo in Napoléon vu par Abel Gance – solo la prima parte del capolavoro del 1927, purtroppo. Da un lato lo strapotere del cinema, la sua forza primigenia, il genio della messa in scena e del senso stesso della rappresentazione (anche storica), dall’altro l’onesto lavoro di mestieranti che si appoggiano al sonoro e al montaggio per creare dinamismo e aggiungere pathos alla vicenda. Nulla di cui stupirsi, ma è evidente che in un immaginario sempre più ristretto anche le vicende di Dantès si facciano rugginose là dove erano corrusche. Lo spettatore ignaro probabilmente si lascerà comunque coinvolgere dalla terribile vendetta ordita dal conte di Montecristo contro i colpevoli della sua ingiusta detenzione nel castello d’If (che domina il panorama marittimo di Marsiglia), ma il merito è da attribuire esclusivamente alla grazia della scrittura dumasiana, così forte da permettere persino a un’opera anodina come quella in questione di galleggiare senza rischiare di essere sommersa dalla marea montante. Chissà se nel recupero dell’arte del grande letterato per un quarto di ascendenza afro-caraibica ci si spingerà anche in direzione de Il tulipano nero o del “Ciclo degli ultimi Valois”. La speranza è che in futuro si sappia cogliere la profondità del discorso popolare di Dumas, e non solo la sua epidermica superficie.

Info
Le Comte de Monte-Cristo, il trailer.

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