From Ground Zero

A pieno diritto fra le proiezioni più importanti del 70mo Taormina Film Festival, dove è stato proiettato in prima mondiale, From Ground Zero dà voce alla Striscia di Gaza in un film collettivo di ventidue episodi ideati, scritti e diretti da altrettanti giovani autori palestinesi, chiamati a trovare uno sguardo e una forma personale per raccontare l’orrore quotidiano della guerra e il bisogno di ritrovare una speranza.

Come uno schermo bianco fra le macerie

Il progetto Ground Zero è stato lanciato da Rashid Masharawi, regista palestinese originario di Gaza, durante la guerra scoppiata dopo gli attentati del 7 ottobre 2023. Questo progetto nasce dalla constatazione che il discorso degli abitanti di Gaza è difficile da ascoltare, e che è necessario avere tracce di quanto vissuto perché se ne conservi la memoria, perché la storia dell’occupazione della Palestina non possa essere riscritta senza tenere conto di quella dei palestinesi e in particolare di quelli di Gaza. È nata così l’idea di comporre un film di 60 minuti con una ventina di racconti brevissimi, della durata media di tre minuti ciascuno. Ciò consente una molteplicità di punti di vista, garantisce la fattibilità delle riprese, che sono necessariamente brevi e disperse nello spazio della Striscia di Gaza, e illustra la fertilità creativa prendendo in prestito da diversi generi: fiction, documentario, animazione e sperimentale. [sinossi]

È dalla metà degli anni Ottanta che Rashid Masharawi, già fra i pionieri della seconda generazione del cinema palestinese e per lungo tempo unico regista attivo di Gaza, si impone in prima persona perché il Paese, lacerato da una guerra senza fine, possa finalmente trovare una propria cinematografia. Un percorso iniziato con i primi cortometraggi, realizzati a breve distanza dagli esordi di Michel Khleifi e molto prima che Elia Suleiman e il più giovane Kamal Aljafari si imponessero all’attenzione internazionale, e poi portato avanti da quasi quarant’anni come cineasta ma anche come produttore e insegnante, con in mezzo la fondazione del Cinematic Production and Distribution Center di Ramallah, in Cisgiordania. Un istituto nato con il ben preciso obiettivo di lavorare nei territori occupati, dando prima la possibilità ai giovani palestinesi di imparare e cimentarsi nella settima arte, e poi di mostrare i loro lavori in veri e propri cinema mobili che, in un Paese del tutto privo di sale, Masharawi porta in giro per i campi profughi, con tanto di organizzazione di un piccolo Festival di film per bambini con cui regalare ai più piccoli qualche momento di evasione e di speranza. From Ground Zero, presentato in prima mondiale alla 70ma edizione del Taormina Film Festival e fra i segni più evidenti e luminosi del ritorno in Italia del direttore artistico Marco Müller, è in questo senso la chiusura di un cerchio, la realizzazione di un progetto – cinematografico ma soprattutto politico, sociale, artistico, mecenatistico, umano – lungo un’intera esistenza. Un film collettivo – proiettato per i registi in Palestina in contemporanea con Taormina, permettendo loro di ascoltare gli applausi della sala – per molti versi importantissimo, composto da ventidue cortometraggi del tutto indipendenti, ognuno con il proprio titolo, con il proprio genere di riferimento, con il proprio linguaggio e con il proprio sguardo, con cui altrettanti giovani cineasti della Striscia di Gaza portano sullo schermo la propria testimonianza, la propria versione dei fatti e delle oppressioni, la propria voce nel leggere una quotidianità che, dalla Nakba del ’48 in poi, ciclicamente torna a distruggere case, vite, famiglie e speranze. Non necessariamente scegliendo un cinema dalla forma militante (nessuno del resto, in tutte le due ore complessive del film, nomina mai apertamente né Hamas né Israele, che è invece assoluta antagonista nel recentissimo e determinante A Fidai Film che il già citato Aljafari ha costruito a partire da frammenti d’archivio OLP letteralmente trafugato dall’esercito sionista), ma con un cinema di memoria, di riappropriazione, di disperati tentativi di normalità, di emancipazione attraverso il punto di vista e lo slancio artistico. Un cinema di pura urgenza espressiva, che nella contingenza della nuova ripresa del conflitto in seguito agli attentati del 7 ottobre 2023 bussa alle porte del mondo per rivendicare nella sua polifonia l’esistenza stessa di un popolo che soffre, l’innocenza dei civili e dei bambini, la profondissima dignità – e in qualche modo anche l’identità, soffocata tanto dall’orrore della guerra quanto dall’imposto silenzio mediatico e artistico – di chi ha la sola “colpa” di essere nato nella Striscia sbagliata del mondo, e che per questo rischia di sparire dalla Storia e dalla sua narrazione. Al punto che poco importa il livello inevitabilmente un po’ in altalena dei singoli cortometraggi, in larga parte concepiti per essere il più possibile agili e veloci nelle riprese ma soprattutto basati su idee più e meno forti, e quindi giocoforza più e meno potenti nel loro vorticare da più direzioni intorno al medesimo punto. Quello che conta è la loro stessa esistenza, il loro dare voce cinematografica a chi sostanzialmente nemmeno ha il cinema, il loro lasciare un segno. In una piccola maratona, necessariamente estenuante così come è estenuante convivere ogni giorno con le bombe e con i razionamenti di un campo profughi, di ventidue (micro)storie che in realtà raccontano una sola tragedia, le sue possibili facce e ramificazioni, le possibili metafore in cui racchiuderne la disperazione, le difficoltà quotidiane, l’aver perso tutto, l’insostenibile malinconia. Ma anche la necessità di guardare avanti e di aggrapparsi agli ultimi lumicini di speranza, al gioco, ai sogni, alla fantasia. Al cinema.

Possono essere una lettera a uno sconosciuto consegnata al mare nella paura quotidiana di morire (Selfie di Reema Mahmoud) o una lettera di addio e di scuse alla settima arte scavalcata nella lista delle priorità dalla necessità di salvare la propria famiglia (Sorry cinema di Ahmed Hassouna), le microstorie e le allegorie di From Ground Zero. Possono essere quella di un fratello (e di un padre) da cercare scavando nelle macerie mentre si tenta disperatamente di chiamare un telefono ormai scarico (il potente No signal di Muhammad Al-Sharif) o i ritagli in stop motion con cui, nel bellissimo Soft skin di Khamis Masharawi, far raccontare anche ai bambini la loro fuga dalle bombe mentre si insegna loro la tecnica d’animazione, e poi magari far immaginare loro un modo per cancellare la paura e riuscire a dormire finalmente senza più incubi. Possono essere quella di un insegnante troppo integerrimo e orgoglioso per accettare l’aiuto di un ex allievo ormai cresciuto nel momento in cui anche trovare cibo, acqua e corrente per caricare il telefono rasenta l’impresa impossibile (The teacher di Namer Nijim), o quasi al contrario quella di un giovanissimo studente che, nello struggente A school day di Ahmed Al Danaf, si presenta ogni giorno con i libri a studiare sulla tomba del suo maestro ucciso da un drone. Possono essere il documentario, magari doppio fra chi ancora piange un cugino e chi invece è stata salvata dopo sei ore sotto i detriti di una casa distrutta (Farah and Myriam di Wissam Moussa) o triplo come il bersaglio umano che racconta di essere stato salvato tre volte in un solo giorno (24 hours di Alaa Damo); oppure la totale finzione del dramma e della tragedia (l’amore irrimediabilmente perduto di Jad and Natalie di Aws Al Banna, il riecheggiare delle telefonate “in diretta” dei bombardamenti sul pianosequenza fisso di Echo di Mustafa Kolab, i momenti di paura che ritornano Flashback di Islam Al Zeriei, o il «godersi già da vivo il sacco per i cadaveri» di Hell’s Heaven di Karim Satoum). E poi ancora il (sostanziale) videoclip musicale (Charm di Bashar Al Balbisi), la pura sperimentazione visiva (Fragments di Basel El Maqousi), il metacinema di No con cui Hana Wajeeh Eleiwa rifiuta ogni storia triste cercando invece gli ultimi sprazzi di gioia, le opere d’arte un tempo esposte e ora impolverate di Out of frame di Nida’a Abu Hasna, e perfino il teatro di burattini (il magnifico Awakening di Mahdi Kreirah) in cui teneramente inventare un padre che, con un’esplosione del 2023, ritrova l’identità e la memoria (e l’amata moglie, e un figlio di cui mai si era reso conto) persi al momento di un’esplosione del 2014, fino al disvelamento finale del dispositivo-teatrino nel quale immaginare tutti insieme come unica via possibile per ricostruire dalle macerie. Storie che raccontano il presente come un prima e un dopo, passando per le ore di coda per una doccia pubblica prima di esibirsi nella tendopoli e rallegrare tutti aiutando a sopravvivere (Everything is fine di Nidal Damo), per una (meta)riflessione sugli uomini diventati meri numeri (di vittime) da Giaffa a Gaza e poi ancora chissà dove (Offerings di Mustafa Al-Nabih), o per la necessità di una testimonianza in primo piano a interrompere e a concludere a voce la storia del carretto improvvisato trainato da una mula (Taxi Wanissa di Etimad Washah). E poi ancora per l’acqua razionata e sempre più sporca di Recycling di Rabab Khamis, da usare prima per lavare i bambini, poi i vestiti, poi i pavimenti, e infine per darla da bere alle piante o per tirare lo sciacquone del bagno, oppure per la nostalgia di quei libri lasciati a casa per «portare solo l’essenziale» nella fuga da Gaza (Overburden Alaa Islam Ayoub), senza ancora rendersi conto che i fardelli più pesanti sarebbero stati il dolore e l’oppressione. Ma forse già intuendo che il cinema, in qualche modo, avrebbe prima o poi potuto provare a curarli, o che per lo meno avrebbe permesso di reimmaginarli, di raccontarli e di mostrarli al mondo. Come un grido da sotto le macerie: Gaza soffre, ma è ancora viva. In ogni sua testimonianza, in ogni suo slancio artistico, in ogni sua storia sempre diversa e sempre uguale, in ogni suo giovane talento che aveva bisogno solo di un’occasione per sbocciare. In ogni voce che sarebbe stata probabilmente destinata a perdersi nel vento, e che invece ora e per sempre brilla su uno schermo. Sta semplicemente a noi saper porgere ascolto, empatizzare, soffrire, comprendere, incazzarsi. Conoscere, davvero, “l’altra campana”. E a tratti magari commuoversi con la sua capacità di guardare ancora verso il futuro, nonostante tutto.

Info
From Ground Zero, il sito della produzione.

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