Va savoir +

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A ventitré anni dalla sua uscita solo ed esclusivamente in Francia, esplode in tutta la sua magnificenza sullo schermo del 70mo Taormina Film Festival Va Savoir +, director’s cut esteso di Chi lo sa? che restituisce in prima internazionale i 224 minuti del progetto originario di Jacques Rivette dopo la riduzione a 154’ con cui al tempo fu presentato a Cannes e poi distribuito sul mercato internazionale. Un capolavoro straordinariamente complesso sul confine sfumato fra la vita e la (meta)rappresentazione, che esplicitamente sospeso fra Pirandello e Goldoni mette in scena in dodici capitoli l’amore, la fedeltà, la gelosia, la (dis)onestà, la recitazione, la regia, il successo, il fallimento, il senso stesso del teatro e del cinema.

Sei personaggi han trovato un autore

L’attrice francese Camille, dopo cinque anni passati in Italia, torna a Parigi con il suo ultimo compagno, il regista Ugo. Vogliono mettere in scena un’opera teatrale di Pirandello intitolata Come tu mi vuoi. Per Camille tornare nella capitale francese significa fare i conti con il passato, visto che con Pierre, il suo ex-compagno, si era lasciata in modo burrascoso. Per Ugo invece la trasferta parigina porta, oltre al lavoro teatrale, anche la difficile ricerca di un manoscritto semi-sconosciuto di Goldoni, del quale è uno dei pochi a conoscere l’esistenza. Le giornate di Camille assumono toni poco felici, anche perché Ugo la trascura per tuffarsi nella ricerca del manoscritto: Dominique, una giovane studentessa attratta da Ugo e dai suoi modi discreti, lo aiuta nelle ricerche e questo genera ulteriore inquietudine della mente di Camille. [sinossi]

Correva il maggio del 2001 quando il già bellissimo Va savoir, nella sua versione classica da poco più di due ore e mezza che sarebbe poi stata distribuita anche in Italia con il titolo Chi lo sa?, esordiva nel concorso – quell’anno particolarmente leggendario, tanto da tornare a mani vuote – del 54mo Festival di Cannes. Eppure già dai primi mesi del 2002 Jacques Rivette, con ogni probabilità non del tutto soddisfatto dall’ora e dieci abbondante di tagli imposti dalla produzione e dai venditori al suo film, decise di rimettere mano all’opera, facendo circuitare per la Francia un director’s cut plus, ri-esteso secondo la sua visione originaria, che nei suoi 224 strabordanti minuti segna per molti versi la summa del suo cinema, e forse dell’intera Nouvelle Vague. Un (capo)lavoro rimasto per tutti questi anni inedito al di fuori del Paese di produzione e ora, grazie all’ennesima geniale intuizione del direttore Marco Müller, proiettato in prima internazionale al 70mo Taormina Film Festival, per lunghi tratti assolutamente identico eppure, a partire dal titolo che a Va savoir aggiunge appunto +, in qualche modo indipendente dalla sua versione “accorciata”, enormemente più complesso e stratificato nelle sue sfumature (im)possibili (o forse nella perfetta coincidenza) fra vita e teatro, di gran lunga più teorico nell’interrogarsi sul vero e sul falso, e ancor più approfondito nel costante mutamento, in eterna altalena fra il palcoscenico, il set e la vita, delle identità e dei rapporti umani. Un film che prima di tutto si muove nell’alveo di un approccio critico a Luigi Pirandello, del quale la compagnia teatrale protagonista sta portando con scarso successo e pesanti difficoltà economiche in tournée europea una versione il più possibile «volgare» di Come tu mi vuoi e del quale finisce per incarnare le riflessioni più profonde con le progressive autonomie e doppiezze dei suoi personaggi, ma che tiene ben più che sullo sfondo anche Carlo Goldoni di cui fra una recita e l’altra il regista Ugo, interpretato da Sergio Castellitto, sta disperatamente cercando per tutta Parigi un manoscritto inedito che nemmeno è sicuro che esista, mentre gli intricati intrecci rohmeriani (d’amore, di fiducia, di gelosia, ma non solo) fra i protagonisti guardano sempre più evidentemente alla commedia brillante di equilibrismi e piccoli inganni del settecentesco autore veneziano. Non è affatto un caso del resto che Va savoir +, come già faceva Va savoir, si apra esattamente come Sei personaggi in cerca d’autore sulle prove generali del meta-spettacolo, con le luci da sistemare nella scatola scenica e con un’interruzione forzata di crisi personali e di nevrosi apparentemente in attesa della prima, e invece in attesa dell’inevitabile incontro dell’attrice Camille, tornata fra i traumi sentimentali della sua Parigi dopo tre anni in Italia e il fidanzamento con l’attore-regista Ugo che dirige la compagnia, con il proprio burrascoso passato, con i propri rimpianti, con le proprie insicurezze, con le proprie malinconie. Così come non è affatto un caso che l’intera trama si dipani intrecciando sempre più desideri, frizioni, malizie e piccole bugie – e quindi di nuovo recitazione e messinscena, sul palco come nella vita – di tre coppie, ancora una volta sei personaggi, intrappolati in una matrioska di meta-rappresentazioni e magari di doppie vite, in cui il vero e la finzione diventano sempre più indistinguibili in una sorta di continuità bidirezionale fra la realtà e la rappresentazione, mentre solo il caso e una serie di coincidenze (o forse per meglio dire il cinema, grande macchina che parte dal τόπος rivettiano del dispositivo teatrale per salire fino all’altro τόπος rivettiano dei tetti della città) potranno rimettere naturalmente le cose a posto.

Basterebbe forse il momento in cui Ugo, sempre più geloso nel riavvicinamento di Camille al suo ex parigino Pierre nonostante questo si sia nel frattempo felicemente fidanzato con l’attraente maestra di danza Sonia (ed ex detenuta che in odor de Il fu Mattia Pascal si è lasciata un’intera vita alle spalle, tenendone come ricordo solo un prezioso anello che sarà successivamente fondamentale snodo di trama), si lascia scappare durante l’ennesima replica il nome del rivale al posto del «Bruno» previsto dal testo di Pirandello. Un’increspatura destinata ad allargarsi fino a diventare vera e propria frattura, da una cena insieme in doppia coppia in cui creare apertamente imbarazzo fino a un duello all’ultimo goccio di vodka sulle passerelle sopraelevate del palcoscenico nel quale perfino l’arma e il cadere sconfitti non si riveleranno altro che un’altra finzione metaforica, mentre parallelamente lo stesso Ugo si avvicina alla bellissima studentessa Dominique che lo aiuta nella ricerca del prezioso manoscritto in un’attrazione reciproca sempre più pericolosa, e il fratellastro di lei, Arthur, intimamente disonesto e impelagato in debiti di gioco, e a sua volta geloso della sorella in un rapporto tanto morboso da suggerire possibili allusioni a un qualcosa di incestuoso, continua impunemente a ronzare intorno a Sonia non per reale amore ma per creare a sua volta una propria finzione con cui creare l’occasione per derubarla, salvo poi cadere nell’inganno di seduzione (e quindi in un’ulteriore messinscena) ordito da Camille per recuperare il costosissimo anello di quell’ex-antagonista diventata oramai tanto amica da decidere infine di lasciarlo all’attrice risolvendo i problemi dell’intera compagnia. Una trama apparentemente intricata (del resto già secondo Pirandello la vita non è lineare, e quindi la narrazione non può che adeguarsi alla stessa imprevedibilità e agli stessi improvvisi sobbalzi) e invece perfettamente lucida e oliata nei suoi incastri apparentemente casuali e nelle sue costanti evoluzioni umane, mentre ogni sera sul palcoscenico lo spettacolo va avanti, e nella meta-finzione via via sempre più parallela alla vita l’Ignota interpretata da Camille torna allo stesso modo a rifarsi una vita nel suo Paese d’origine, magari guardando proprio a quella Berlino a cui Pierre quotidianamente sospira nella sua infinita scrittura della tesi di dottorato su Heidegger, fra la lettura giornaliera del Die Welt su una panchina e i libri in tedesco disordinatamente appoggiati in ogni angolo della sua casa. Un meccanismo – del (meta)teatro pirandelliano, e quindi del cinema che filma il teatro evolvendone sguardo e spazio scenico in un’infinita riproducibilità – in cui il continuo slittamento dalla realtà alla rappresentazione del Come tu mi vuoi (che poi a ben vedere in realtà nient’altro sono che due differenti livelli di rappresentazione), e di conseguenza da un’identità all’altra, porta progressivamente a una perfetta compenetrazione del vero e del falso, allo specchiarsi e allo scolorare dell’uno nell’altro, al portare avanti la vicenda su un doppio binario che si avvicina fino a combaciare. Un po’ come se la realtà nemmeno potesse esistere, perché in fin dei conti tutto è finzione, tutto è menzogna, tutto è secondo fine, da un bacio al rifiuto di aprire una porta, da un tentativo di rapimento a una fuga dal lucernario sui tetti, da un’aperta bugia (con tanto di ricatto morale) per non perdere la compagnia che minaccia di non tornare in scena fino all’arrivo degli stipendi all’ennesima ricerca infruttuosa prima nella biblioteca pubblica, e poi in quella privata ereditata proprio dalla famiglia di Dominique e Arthur. Fino al gran finale che al grandguignol preferisce ancora una volta la performance, mentre tutti i personaggi convergono ancora una volta sul palcoscenico in attesa che Ugo e Camille ripartano per la successiva tappa del tour, finalmente riuniti e grazie alla generosità di Sonia senza più difficoltà economiche, e con in mano una pièce inedita di Goldoni, trovata per puro caso fra i libri di cucina proprio quando ci si era arresi all’evidenza che non esistesse, sulla quale costruire un nuovo spettacolo e un nuovo sogno.

Non per nulla è proprio nelle scene filmate a teatro, che stanno le maggiori differenze fra il Va savoir “breve” – o Chi lo sa? che dir si voglia, ancor di più in un film che nasce bilingue fra francese e italiano e del quale non avrebbe avuto alcun senso realizzare una versione doppiata – e questo Va savoir +. Un’estensione di minutaggio con cui scavare all’interno delle scene di Pirandello aggiungendone sera dopo sera un nuovo frammento in quasi ogni capitolo, per approfondirne tematiche, meta-teorie e intuizioni, per metterle in costante confronto con il dipanarsi delle vicende personali degli attori e con il loro costante slittamento di identità, e nel frattempo per sfondare ripetutamente la quarta parete, rivolgendosi (in)direttamente a quel ben preciso spettatore che, di volta in volta, si sa essere presente in platea. Come se il Come tu mi vuoi, perfettamente innestato nella sceneggiatura scritta dallo stesso Jacques Rivette con la collaborazione di Christine Laurent e Pascal Bonitzer, e anzi vera e propria parte complementare e fondamentale del film, nient’altro fosse che uno specchiarsi sul palcoscenico e nella finzione della vita, dei gesti e delle emozioni tanto degli attori quanto di chi gravita loro intorno, di chi condivide (o finge di condividere) con loro attrazioni e sentimenti, di quel co-protagonista, in teoria extra-recita, che quella sera è presente in sala solo per guardarli e ascoltarli, ma che finisce inevitabilmente per essere vera e propria parte dello spettacolo, catalizzatore del talento e delle emozioni, vero e proprio oggetto di una dedica e dell’intera performance, come se la recita di quella sera fosse solo per quell’unico astante da aspettare in camerino o da ritrovare all’uscita, e con cui darsi appuntamento per il giorno successivo dentro o fuori dalla sala. Per continuare a mettere in scena la pièce oppure l’eterna screwball comedy che è la vita, in un costante recitare che è l’unico modo per risolvere le situazioni, per portare alle più estreme conseguenze (reali, apparenti, poco importa) gli adescamenti e le gelosie, l’amore folle (che va, che viene, che ritorna, che non è mai cambiato, che si estingue e magari vira in odio) e gli errori quotidiani. Fra una battuta persa e da trovare il modo di suggerire fino al ritrovare il «ritmo giusto» e gli sguardi ora di Camille e ora di Ugo verso il (poco) pubblico per cercare proprio quel volto, ora di Pierre e ora di Sonia, ora di Dominique e ora di Arthur, o forse di tutti e quattro insieme, magari sul palco e non solo sulle poltrone come già teorizzato da Pirandello in Ciascuno a suo modo, o magari su una rete sospesa dalla quale sarà possibile scendere solo dopo un buon sonno e la discesa della sbornia. Un sestetto di personaggi che continuano a scambiarsi di ruolo come in una coreografia che ininterrottamente si sfalda e si ricompone, danzando fra (pseudo)realtà e (meta)finzione, fra regia e recitazione, fra fedeltà e (dis)onestà, fra la vita e il palcoscenico. Fra l’amore, l’odio e la gelosia – forse la stessa di Leonora Addio, o magari dell’impossibilità di adattarla di Questa sera si recita a soggetto di cui non certo per caso verrà ripreso anche il litigio dietro al sipario dell’incipit. Del resto anche lo stesso naso di Sergio Castellitto, volutamente somigliante a quello dell’altro metaregista teatrale rivettiano Gérard già interpretato nel ’61 da Giani Esposito in Parigi ci appartiene e oggetto di una delle battute più fulminanti di Va savoir +, finisce insieme alla crisi di identità del suo personaggio (e del suo meta-personaggio) per ricordare Uno, nessuno e centomila, declinato in un regista che è anche attore, che è anche fidanzato geloso, che è anche uomo desiderato che non vuole cedere alla seduzione, che è anche studioso appassionato alla ricerca del Goldoni perduto, e che rischia in un sol colpo di perdere la compagnia teatrale e l’amore, la dignità e la morale, salvo poi ritrovarsi inaspettatamente ubriaco e felice vedendo all’improvviso i fallimenti virare in successi. Forse è proprio questa la magia del (grande) teatro e del (grande) cinema, e quindi della vita. La semplicità con cui le parabole (narrative) anche più complesse trovano quasi da sole il modo per giungere a una conclusione, mescolando le scelte, le intuizioni e l’abnegazione personale con il puro caso, con l’incastrarsi delle giuste concomitanze, con la continua ricombinazione degli elementi, fino a chiudere ogni cerchio. Come se il palco e la realtà non facessero altro che portare avanti una stessa unica grande narrazione esistenzialista, della quale tutti siamo inevitabilmente interpreti. Basta sedersi su una poltrona, spalancare gli occhi e riconoscercisi. Mai realmente passivi, ma (contro)parte riflessiva e indispensabile del senso più profondo di ogni spettacolo.

Info
Il trailer di Va savoir +.

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