Babygirl

Babygirl

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A due anni di distanza da Bodies Bodies Bodies la quarantanovenne olandese Halina Reijn torna alla regia con Babygirl, thriller erotico in odor di dichiarata farsa che riflette sul desiderio inappagato, sulle declinazioni possibili dell’abuso di potere, e sulle distonie del contemporaneo. Un po’ superficiale ma non banale, grazie anche al triangolo attoriale composto da Nicole Kidman, Antonio Banderas, e Harris Dickinson. In concorso alla Mostra di Venezia 2024.

Eyes Wide Open

Una potente amministratrice delegata mette a repentaglio la carriera e la famiglia quando inizia una torrida relazione con un suo stagista molto più giovane. [sinossi]

“Se solo voi uomini sapeste…” pronunciava sibillina Nicole Kidman al marito (anche nella vita reale, all’epoca) Tom Cruise in un passaggio-chiave di Eyes Wide Shut, facendo riferimento al desiderio femminile, alla sua rimembranza nel tempo, e alle dinamiche psicologiche ed erotiche che il maschio spesso non arriva a comprendere in tutta la loro possanza e stratificazione. “Se solo voi uomini sapeste…” potrebbe ribadire venticinque anni dopo anche Romy, la protagonista di Babygirl che ancora una volta ha il volto (rimpolpato con il botulino e l’acido ialuronico) e le fattezze di Kidman. Impossibile non notare come la regista olandese Halina Reijn – già autrice di Instinct e Bodies Bodies Bodies – ricerchi con predeterminata forza l’apparentamento con il capolavoro terminale kubrickiano: lo testimonia in maniera plateale quel nudo posteriore integrale dell’attrice, l’ambientazione natalizia con tanto di alberi addobbati piazzati un po’ ovunque, la crisi coniugale, un istante in cui Romy si rimira nello specchio, quella richiesta di tenere gli occhi aperti, spalancati, o forse socchiusi, perfino occultati allo sguardo da un cuscino durante l’atto sessuale. Non è ovviamente quello di Reijn un modo per mettersi in competizione con Kubrick, ma solo l’enunciazione di una necessità, quella di tornare a ragionare sulla coppia dal punto di vista prettamente sessuale prima ancora che sociale, o culturale. In qualche misura è come se Alice Harford, rimesso a posto il proprio matrimonio tornando a scopare – al punto da produrre una secondogenita – non abbia però ancora svelato il mistero del proprio desiderio al marito. Ovviamente, per sgomberare il campo da ogni dubbio di sorta, non esiste alcun legame reale tra Eyes Wide Shut e Babygirl, il film con cui Kidman torna alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia a venti anni esatti dalla presentazione – sempre in concorso – del sottostimato e per lo più incompreso Birth – Io sono Sean di Jonathan Glazer.

A giudicare da come è stato accolto al momento delle due proiezioni stampa, si corre il rischio che anche Babygirl risulti per lo più poco compreso al termine di Venezia 2024: un peccato veniale, si potrebbe dire, perché di certo il film di Reijn non ambisce ad ascriversi tra le visioni imperdibili dell’ultimo anno, eppure che sarebbe opportuno evitare di commettere. I risolini di scherno che hanno accompagnato i momenti evidentemente più prossimi allo “scult” (ma il film si muove proprio sull’ardito crinale che divide la visione d’autore dalla caduta nel baratro del ridicolo involontario), come quando Romy riceve dallo stagista Samuel, l’unico ad aver compreso il desiderio inappagato della donna, l’ordine di inginocchiarsi di fronte a lui comportandosi come un cane, dimostrano quanto l’utilizzo del grottesco e la rappresentazione non di prammatica della sfera intima continuino a essere elementi destabilizzanti, perfino in un film che a causa del suo comparto produttivo non può permettersi chissà quali profanazioni della morale condivisa. Non si vede quasi nulla in Babygirl, ed è in effetti questo il vero limite di un film che dovrebbe muoversi nel solco della tradizione nederlandese – si legga alla voce Paul Verhoeven, ovviamente – ma è prodotto in quel di Hollywood, dove la patina domina il proscenio e nessuna perversione è davvero consentita all’occhio. Si deve in modo necessario fare la tara a tutto ciò se si vuole davvero provare a entrare in dialettica con il film di Reijn, che di imperfezioni ne mostra a iosa – e senza poter ricorrere al botulino – ma ha almeno il coraggio di condurre di nuovo il desiderio del corpo, del dominio, del possesso al centro di un discorso fattosi invece sempre più digitale, volatile, impalpabile. In tal senso il dialogo tra Samuel e Jacob, il regista teatrale marito innamorato di Romy (la quale però dichiara di non aver mai raggiunto l’orgasmo in quasi trent’anni di relazione, se non procurandoselo da solo guardando video pornografici amatoriali), appare quasi come una dichiarazione di intenti, o forse l’estrema sintesi del discorso che si sta cercando di intraprendere.

Nel suo utilizzarle come mcguffin, ma anche come specchietto per le allodole e allo stesso tempo spada di Damocle che pende funerea sui protagonisti, le parole chiave dell’oggi – ruolo di potere della donna, relazioni consentite solo previa consenso dichiarato, e autodeterminazione del proprio essere sessualizzato – servono alla regista per imbastire una riflessione sul desiderio femminile, e sul diritto di raggiungere l’appagamento sessuale attraverso pratiche o consuetudini che la massa ritiene poco consone quando non direttamente inappropriate. Certo, l’impalcatura produttiva depotenzia il discorso, e in parte arriva anche a confonderlo, eppure tra le pieghe del racconto tutto ciò può essere rintracciato, così come sulla pelle stessa di Nicole Kidman, che con coraggio leonino affronta un film che in qualche modo si tramuta anche in documentario/requisitoria su lei stessa, sulla sua gestione del potere, sulla sua ridefinizione del corpo, della pelle. E in un finale sardonico ma anche consolatorio – e si torna alla confusione dettata da un assetto produttivo che non può comprendere davvero il senso di un lavoro come Babygirl, pena il rifiuto istantaneo (lo stesso rifiuto, paradossale testacoda, riservato da alcune frange del cosmo intellettuale) – si può finalmente ridere con il film, e non di lui.

Info
Babygirl sul sito della Biennale.

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