Venezia 2024
Con Venezia 2024, ottantunesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, nonostante il cambio di direzione alla Biennale Alberto Barbera conferma la sua idea di festival, e di ricerca cinematografica: un evento che dialoghi con il mainstream cesellando il tutto con qualche divagazione più prettamente cinefila.
Parte dalle parole che Francesco Pasinetti vergò di proprio pugno nel 1932 Pietrangelo Buttafuoco, Presidente della Biennale di Venezia che ha avuto l’onere di aprire le danze durante la presentazione del programma di Venezia 2024, ottantunesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica; si ritorna dunque idealmente agli inizi della vita della Mostra, nelle parole di Buttafuoco, che allarga poi il discorso – e il suo senso – parlando di legittime “invasioni di campo” con le altre arti e rivendicando il ruolo della kermesse lagunare come testa di ponte per la fusione tra le culture, le istanze poetiche, le necessità espressive. Responsabilità civile, politica, e poetica della bellezza. Arriva a far riferimento alla celeberrima edizione del 1951, quando il mondo grazie a Venezia e alla vittoria in concorso di Rashomon scoprì l’esistenza di Akira Kurosawa, e in pratica dell’intero cinema giapponese. Un ricollegarsi ai fasti dei tempi che furono che indica in qualche misura la direzione verso cui protende la Biennale, e che in parte sicuramente trova terreno fertile nel lavoro che per il tredicesimo anno consecutivo – e il sedicesimo in assoluto – Alberto Barbera ha portato a termine insieme alla sua squadra. Certo, viene naturale ancora una volta sottolineare lo scarso peso politico che alcune (vaste) aree del globo hanno nelle scelte del comitato di selezione, in particolar modo per quel che concerne il concorso principale. A correre per il Leone d’Oro è quasi esclusivamente la parte occidentale del mondo: su ventuno titoli complessivi, se si escludono April della georgiana Déa Kulumbegashvili, Strangers Eyes del singaporiano Yeo Siew Hua, e Youth (Homecoming) di Wang Bing, tutto si risolve in un contesto geopolitico che guarda a occidente, o perché direttamente “tale” o perché – e vale per il cinema sudamericano – afferente allo stesso. Una predilezione cui si continua a guardare con sospetto, e che in un’epoca belligerante e infuocata come quella odierna rischia di chiudere gli orizzonti invece di spalancarli, e di accontentarsi di ciò che già si conosce, già si è esperito, già si sa come gestire.
Con questo non si vuol suggerire che manchino d’interesse le opere che concorreranno per la vittoria finale, sia chiaro. Difficile infatti rimanere insensibili di fronte a nomi come quelli di Brady Corbet, Pablo Larraín, o Pedro Almodóvar – e c’è chi senza dubbio esulterà per la quantità di stelle di media e grande lucentezza che calcherà il tappeto rosso di fronte al Palazzo del Cinema –, eppure l’impressione è che la presenza di produzioni statunitensi, francesi e italiane nella competizione principale (13 film su 21, se non si è contato male) sbilanci in maniera eccessiva l’equilibrio. Meglio forse muovere lo sguardo verso le altre sezioni, a partire da un fuori concorso che tra Harmony Korine, Lav Diaz, Takeshi Kitano, Tim Burton, Kiyoshi Kurosawa, Pupi Avati, e Claude Lelouch sembra quasi un contro-concorso, cui si aggiungono i cortometraggi di Marco Bellocchio e Alice Rohrwacher – quest’ultima in co-regia con JR; e cosa dire dei nuovi lavori “documentari” di Amos Gitai e Andrei Ujică, o perfino delle serie – tutte programmate integralmente, una decisione questa molto apprezzabile – di Rodrigo Sorogoyen, Alfonso Cuarón, Thomas Vinterberg e Joe Wright (quest’ultimo alle prese con il primo capitolo della trilogia letteraria di Antonio Scurati)? Tracce di dialettica con l’immagine che aprono scenari affascinanti, anche di riflessione oltre che di godimento spettatoriale. [continua a leggere]