Intervista a Priska Morrissey e Deborah Nadoolman
Giunto al suo terzo appuntamento, la serie di conferenze sulla storia dei costumi nel cinema muto, curata dalla costumista e docente alla UCLA Deborah Nadoolman per le Giornate del Cinema Muto, ospita la storica del cinema Priska Morrissey, che insegna all’università francese Rennes 2. Il tema del suo intervento riguarda la nascita del design dei costumi nel cinema delle origini francese, come questa si inserisca nel mondo teatrale e delle società di noleggio dei costumi dell’ambiente parigino. Analizza e i costumi di Georges Méliès, conservati alla Cinémathèque française. E affronta anche la connessione tra la sensibilizzazione cromatica dell’emulsione, con le diverse rese del bianco e nero, proprio in relazione ai costumi. [foto di ©Valerio Greco]
Stiamo parlando della Francia che è il paese in cui è nato il cinematografo. C’è una specificità nella storia del cinema francese, ed europeo sui costumi delle origini, rispetto a quello hollywoodiano? C’è qualcosa che la cultura europea ha impresso?
Priska Morrissey: Ci sono tanti elementi che sono gli stessi, gli attori dovevano indossare quello che portano normalmente, nei tempi moderni. Ma il rapporto tra i costumisti e gli stilisti della moda è completamente diverso.
Deborah Nadoolman: I migliori designer di moda sono qui in Italia e anche tanti grandi costumisti sono italiani. In Francia hanno risentito di un rapporto conflittuale con il mondo della moda. Ricordiamoci che i costumisti non hanno marchi, nessuno conosce il loro nome. Nessuno ha sentito parlare di me, solo mia madre sapeva che avevo disegnato Indiana Jones!
Qual è quindi il collegamento tra il costume, gli abiti nei film di Méliès e i costumi teatrali?
Priska Morrissey: Méliès, come noto, era un caricaturista. E aveva anche il Théâtre Robert-Houdin, quindi era completamente immerso nei modelli teatrali. E quindi è stato il primo regista a fare schizzi e a realizzare costumi speciali per i film. E noi siamo molto fortunati perché alla Cinémathèque Française, è conservato un sacco di costumi di Méliès. Il problema è che questi costumi provengono dal Théâtre Robert-Houdin. Oltre al periodo dei film, Méliès è passato alla fase del Théâtre des Varietés, che è un’altra storia della sua vita, insieme alla figlia e a suo marito. È molto difficile vedere i confini, ma ci dice qualcosa sui costumi, che sono materiali che circolavano e ricircolavano molto spesso. Un costume poteva essere adattato e riparato, adattato ad altri corpi, venduto, acquistato e rivenduto molte volte. Nel 1905 Méliès acquistò un gran numero di costumi dalla Maison Le Père, che era una società di costumi teatrali. Le Père, a sua volta, acquistò negli anni ’80 dell’Ottocento, credo, costumi per il Théâtre de la Renaissance. Quindi abbiamo il Théâtre de la Renaissance, la Maison Le Père che confluiscono in Méliès. Nei costumi di Méliès, puoi trovare un gilet del XVIII secolo, perché durante la Rivoluzione francese, gli abiti degli aristocratici, o della gente di chiesa, furono presi dal popolo rivoluzionario e divennero costumi di teatro. E quindi ritroviamo gli abiti degli aristocratici prima del 1789 nei film di Méliès.
[A Priska Morrissey] Quali sono gli studi che porti alla conferenza qui a Pordenone?
Priska Morrissey: Ho una formazione accademica in storia e ho fatto una biforcazione verso il cinema. Ma la mia prima ricerca, la mia ricerca principale negli ultimi anni, riguardava il primo cameraman. Come questa professione è diventata una professione, la storia della fotografia. E da lì, ho iniziato a interessarmi a vari aspetti del cinema come l’emulsione negativa. E con la questione dell’emulsione ho riflettuto sulla questione dei costumi, del trucco e su come si realizza il bianco e nero e l’ortocromatico bianco e nero e il passaggio tra ortocromatico e policromatico. Parallelamente, ho lavorato per molti anni ai costumi per una grande conferenza, nel 2011. Da lì ho proseguito a studiare i costumi, cosa su cui nessuno aveva lavorato fino a quel momento. Ho fatto alcune interviste con grandi costumisti, come Jacqueline Moreau, che ha lavorato con Jacques Demy, Jackie Budin, che era la costumista di Alain Resnais, e Yvonne Sassinot de Nesle, che è una costumista francese molto famosa, che ha lavorato per la televisione francese, la Comédie Française, e poi per il cinema, e in particolare nei film storici.
Visto che hai studiato la costumista di Jacques Demy, non posso non chiederti come realizzasse questa perfette sinergie cromatiche tra costumi e scenografie.
Priska Morrissey: È stato meraviglioso conoscere Jacqueline Moreau perché ha conservato i modelli, gli schizzi dei suoi costumi. Lei era la moglie di Bernard Evein, che era lo scenografo di Jacques Demy. Lavoravano separatamente, nei rispettivi studi, ma ovviamente poi si incontravano a casa loro con i loro schizzi, per combinare le vivacità cromatiche tra i colori dei costumi proposti da Jacqueline e i colori proposti da Bernard per le scenografie. Per quello sono film così colorati in cui c’è un collegamento studiatissimo tra i costumi, gli abiti e lo sfondo, i colori sono perfettamente organizzati.
Cosa mi puoi dire sui tuoi studi sull’emulsione? Perché e in che modo i cambiamenti nell’emulsione hanno cambiato il modo di fare cinema?
Priska Morrissey: Quello che è davvero noto è il passaggio tra ortocromatico e pancromatico, che è sensibile a tutti i colori. Questo passaggio avviene principalmente alla fine degli anni ’20. Ma la cosa più interessante è il passaggio tra ordinario e ortocromatico, che non è la stessa cosa. L’ordinario è sensibile solo al blu e al blu-violetto, e l’ortocromatico è sensibile al blu-violetto più il giallo, più forse il verde. E penso che questo sia avvenuto all’inizio del secolo, nel 1903, forse nel 1905. Come per il set, la scelta dei colori per i costumi deve tenere conto del fatto che appariranno in modo diverso su una pellicola estremamente sensibile al blu, che appare bianco o trasparente sul positivo, e insensibile al rosso, che appare quasi nero. Nel 1907, Méliès fornì un resoconto dettagliato degli effetti di queste emulsioni sul set, ma anche su oggetti di scena e costumi. Disse che, cito, «sarebbero stati utilizzati oggetti appositamente realizzati, dipinti in modo uniforme in varie tonalità di grigio, meticolosamente graduati in base alla natura dell’oggetto. Poiché i film sono spesso colorati a mano prima della proiezione, non è fattibile applicare la stessa colorazione a oggetti realmente fotografati. Se tali oggetti fossero fatti di bronzo, mogano, tessuti rossi, gialli o verdi, apparirebbero di un nero intenso, senza alcuna trasparenza. Inoltre, sarebbe impossibile ottenere il tono traslucido necessario per la proiezione. Per questo motivo, la maggior parte dei costumi deve esibire toni fotografici ottimali». Quattro anni dopo Jacques Ducom specifica le scelte che dovevano essere fatte: « Il film è ancora solo leggermente ortocromatico, e non tanto da trasformare un abito rosso brillante in una riproduzione fotografica nitida. Un abito di questo colore, così rosso, apparirà costantemente scuro o quasi nero scuro sullo schermo di proiezione, mentre anche i gialli e i verdi chiari saranno riprodotti male. Al contrario, le scelte in blu, in particolare molto blu o viola scuro, appariranno bianche in proiezione. Per ottenere una composizione armoniosa, è essenziale selezionare colori neutri che non siano né troppo bianchi né troppo scuri». Nel 1912, Léopold Lobel ammise che i costumi impiegati provenivano da compagnie di costumi teatrali e che i costumi non erano sempre adatti per il cinema. E come molti altri autori, sconsigliò l’uso del bianco puro, per creare un effetto vuoto nell’immagine.
Mentre per quanto riguarda i tuoi studi sulla storia della figura del direttore della fotografia, puoi raccontarmi come è nata questa professione alla base della creazione di un film? Come mai in Italia, e in Francia, si usa il termine direttore della fotografia mentre in inglese la definizione tradizionale è quella di cinematographer, anche se ora è più usato dop?
Priska Morrissey: È una storia molto lunga. Per quanto riguarda la questione del termine direttore della fotografia, in Francia anche noi diciamo directeur de la photographie. Penso che questo sia un termine che è diventato sempre più comune dopo la Seconda guerra mondiale. Prima di allora, all’inizio, si parlava solo di operatore, o forse fotografo, il fotografo del film. In inglese si è cominciato a dire photographer e cinematographer molto presto, ma in Francia i termini erano photographe e operator. E dopo, alla fine del ‘10, puoi trovare operator cinématographiste, opérateur de prise de vue. E negli anni ’20, il ruolo comincia ad assumere una connotazione artistica e di coordinamento dello staff dell’immagine, e si inizia a parlare di chef-opérateur, o chief-opérateur. Alla fine degli anni ’20, ci sono grandi, grandi film, come il Napoleone di Abel Gance e qui nasce una nuova professione, quella di directeur technique che è tutta un’altra cosa rispetto al chief-opérateur: esercita una supervisione e non tocca nemmeno una camera. Supervisiona tutto lo staff, i trucchi, ecc. Penso che il termine di directeur de la photographie derivi da directeur technique. Si può trovare anche in Francia, ma non è comune, l’equivalente dell’espressione anglosassone cinematographer. Ma il modo in cui pensiamo, almeno in Francia, prevede l’idea che questo cameraman sia un fotografo. I primi credit si hanno con il film La decima sinfonia di Abel Gance, che è un film del 1919. Prima di allora, durante la guerra, c’erano i vecchi operatori al fronte, e c’erano alcuni giovanissimi cineasti, che erano molto eccitati nel voler fare qualcosa di completamente nuovo, come Griffith e Abel Gance. Gance era molto ambizioso, e molto ambizioso con il suo cameraman, che era Léonce-Henri Burel. Da lì inizia la storia di questa figura che lavora a stretto contatto col regista.