Intervista a Deborah Nadoolman

Intervista a Deborah Nadoolman

Cosa hanno in comune il giubbotto di Indiana Jones, la felpa da college di John Belushi in Animal House, la giacca rossa di Michael Jackson nel videoclip di Thriller e i completi bianchi e neri di Blues Brothers? Sono tutti opera della costume designer Deborah Nadoolman, nominata agli Oscar per Il principe cerca moglie. Fondatrice e direttrice del David C. Copley Center for the Study of Costume Design presso l’università UCLA, è anche docente nello stesso ateneo, ed ha ricoperto due mandati della presidenza dell’associazione di categoria Costume Designers Guild. È autrice di svariati volumi sul costume design e sulla sua storia, ed è stata curatrice della mostra “Hollywood Costume” che si è tenuta nel 2012 al Victoria & Albert Museum di Londra.
Abbiamo incontrato Deborah Nadoolman durante il 74 Locarno Film Festival, dove ha tenuto una masterclass e accompagnava il marito John Landis, che ha ricevuto il Pardo d’onore.

Alcuni dei tuoi lavori sono diventati iconici, come vestiti di personaggi entrati nell’immaginario. Cominciamo da Indiana Jones. Puoi raccontarci come hai sviluppato il suo celebre vestito?

Deborah Nadoolman: Conoscevo Steven Spielberg da molto tempo e sono stata la sua prima costumista. Non aveva un costume designer per Lo squalo e non ne ha usato uno neanche in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Steven vide Animal House e si innamorò dei costumi, ma allo stesso tempo anche di John Belushi, Tim Matheson e Karen Allen. Quindi quando stava lavorando a 1941, giusto per darti il contesto, mi ha assunta perché mi occupassi del design del film, visto che si trattava di un film di ambientazione storica. Aveva preso anche John Belushi e Tim Matheson e aveva dato persino a mio marito John Landis una piccola parte. Il film è stato un fallimento, ma ci siamo divertiti tantissimo a realizzarlo, era stato scritto da Robert Zemeckis e Bob Gale. In quel periodo eravamo tutti molto giovani, e molto uniti. Ieri mi hanno chiesto cosa pensi delle collaborazioni continuative, quando i registi lavorano sempre con lo stesso direttore della fotografia, lo stesso art director, lo stesso scenografo e lo stesso costumista. Si tratta di fiducia. Il regista ha tantissime cose a cui pensare ma se si fida del suo team creativo allora ha una cosa meno di cui preoccuparsi.
Ci siamo affiatati molto durante le riprese di 1941. Una volta terminato il film, sono andata subito a occuparmi di The Blues Brothers e nel mentre Steven stava lavorando a questa sua idea con George Lucas, I predatori dell’arca perduta, e la stavano sviluppando insieme. Avevo un rapporto molto stretto con Steven, mentre con Lucas ci siamo visti solo qualche volta sul set. Durante le riprese di The Blues Brothers, Spielberg mi chiamò dicendo: «Faremo questo film, sarà un film di serie B! Saremo l’A-team dei film di serie B!». Gli chiesi il titolo e lui rispose “I predatori dell’arca perduta”! Cosa voleva dire? I predatori dell’arca perduta? Non aveva alcun senso. In ogni caso mi mandò il copione e la storia si apriva in Brasile. Non riuscivo a capirlo, ma ho letto il copione e quando sono tornata da Chicago ho iniziato subito a occuparmi del design del film. Steven e io abbiamo iniziato a vedere film insieme, ci sedevamo in sala proiezione e guardavamo dei film del passato. Abbiamo visto dei film con Alan Ladd come Cina, del 1943, dove lui indossava un cappello fedora marrone e una giacca di pelle. E poi abbiamo visto Il segreto degli Incas del 1954 e Il più grande spettacolo del mondo del 1952. In entrambi Charlton Heston indossava quello che era praticamente l’archetipo, il cappello fedora marrone, e Il segreto degli Incas è davvero I predatori dell’arca perduta. Se metti i due film uno accanto all’altro, sono praticamente la stessa pellicola con il personaggio interpretato da Charlton Heston. Steven disse, a proposito del costume: «Deve assolutamente indossare una giacca di pelle», voleva che fosse un esploratore, era l’archetipo ma poi ha lasciato il resto a me. Lui mi ha spiegato tutto bene, mi ha fatto vedere quei film, mi ha addirittura disegnato uno schizzo, che ho ancora, di quello che voleva. Era ridicolo come un ragazzino. All’inizio era stato scritturato Tom Selleck. Io ero andata alla Western Costume Company a Los Angeles, e avevo iniziato a lavorare al prototipo della giacca e a cercare il giusto tipo di cappello. Tom Selleck è un gigante, è enorme e molto alto, molto più alto di me e sembrava davvero un eroe. Quindi ho fatto del mio meglio, ma circa sei settimane prima dell’inizio delle riprese, quando io avevo già lavorato sul prototipo, Tom Selleck ha preso un altro lavoro, quello per la serie Magnum P.I. e noi eravamo senza Indiana Jones. Eravamo tutti molto preoccupati e nel panico, io avevo già dovuto fare tantissime giacche per gli stunt e appunto per Tom Selleck che è enorme. Poi George Lucas ci disse: «Han Solo è senza lavoro al momento, che ne pensate?» e così è arrivato Harrison Ford. Harrison era una persona meravigliosa perché era molto silenzioso, molto intellettuale. Ogni donna sul set era delusa, piangevamo perché non c’era più Tom Selleck. Cosa dovevamo fare? Arrivava questo ragazzo che non era propriamente un eroe. Io ho dovuto buttare via il prototipo precedente, siamo andati a Londra e ho completamente ridisegnato il costume per Harrison. L’unica cosa che non ho cambiato sono gli stivali da lavoro. Lui amava fare il carpentiere, fare lavori manuali e gli piacevano particolarmente quegli stivali e li ho tenuti per Indiana Jones. Quando siamo andati a Londra ho completamente rifatto la giacca e ciò che è speciale del mio design è che volevo modellare il corpo giusto per Harrison. Volevo che la giacca si chiudesse fino in cima con la zip, ma volevo anche che fosse in grado di usare la frusta e sembrasse magro, anche se lui è comunque bello. Quindi ho aggiunto una piega profonda sulla schiena in modo che potesse muovere liberamente le braccia e in camerino abbiamo lavorato molto su questo movimento. Poi mi sono occupata del cappello e abbiamo preso tantissimi scatoloni di cappelli dal magazzino dei costumi, li ho svuotati sul pavimento al punto che era sommerso fino alle ginocchia: milioni di cappelli da provare, uno dietro l’altro. Non riuscivamo a trovare quello giusto e quindi sono andata da un meraviglioso cappellaio di Londra, Herbert Johnson, e ne ho preso un altro e adattato, l’ho completamente rifatto, basandomi sulle conversazioni con Harrison e Steven. E poi quei film, le ricerche, i prototipi: tutto per creare qualcosa di unico. Riguardo a ciò che hai detto prima sul creare icone, non voglio essere modesta ma dopo decadi di questo lavoro, osservando anche i miei colleghi farlo, ho lavorato duro a 1941 tanto quanto a I predatori dell’arca perduta. Tutti ci siamo impegnati allo stesso modo per film senza successo, per film mal riusciti e per film belli ma che non hanno avuto successo. Steven e neanche George non avevano idea del successo de I predatori dell’arca perduta. Io posso dirtelo perché ero lì. Abbiamo fatto il film, lo abbiamo portato a termine ed era finita lì. Non stavano pensando a un sequel o altro, avevamo semplicemente finito il film. E vorrei dirti ora che credo davvero che sia il pubblico a creare le icone. Non noi. Noi facciamo il nostro lavoro sempre con lo stesso impegno, facciamo del nostro meglio al 100%, ci mettiamo passione, perché tutti i grandi hanno passione. Ma non siamo noi, è il pubblico che si deve innamorare follemente, innamorarsi del personaggio, non di Harrison Ford.

Mi confermi che il lavoro di costumista si basa sugli attori, ma non semplicemente dal punto di vista della taglia. Si tratta di creare un’immagine, un personaggio.

Deborah Nadoolman: Non sapremo mai come sarebbe stato con Tom Selleck. Meryl Streep una volta mi ha detto che lei cerca sempre di trovare qualcosa della sua personalità in ogni personaggio che interpreta. E Indiana Jones ha molte qualità di Harrison Ford. È vulnerabile, è intellettuale, è reticente, è riservato, ha senso dell’umorismo, è arguto. Non è maschilista, e non lo è neanche Harrison. È una sorta di eroe dal basso profilo.

E com’è andata con Michael Jackson?

Deborah Nadoolman: Per quanto riguarda Michael Jackson, la mia parte è stata realizzare qualcosa che fosse appropriato per la figura. Ho parlato della giacca e del cappello di Indiana Jones, e non credo che sia stato un caso che in The Blues Brothers indossassero giacche e cappelli. Quando ho lavorato a questo film con John Belushi e Dan Aykroyd mi sono resa conto di quanto fossero per me come Laurel e Hardy, quando li vedevi li riconoscevi immediatamente dalla loro silhouette. Michael Jackson invece era così minuto, e devo dirti che da lui ho davvero imparato tanto riguardo al talento. Però lui era qualcosa come 1,75m per 50kg, quindi niente massa. John e io siamo andati a vedere un concerto di Michael Jackson al Madison Square Garden di New York. In realtà noi lo conoscevamo da prima, veniva spesso a casa nostra e adorava John. Veniva da noi, cenavamo insieme, guardava la televisione con John. Era molto silenzioso, non parlava spesso, era difficile capire che tipo di persona fosse. Al Madison Square Garden ci saranno state più di 50mila persone, tutte lì per lui, anche se c’erano tantissimi musicisti sul palco, tutti avevano occhi solo per lui. Per me è stata un’epifania, non ho mai provato qualcosa del genere. Era la sua popolarità, qualcosa di cui non ti rendi conto finché non la vedi di persona. E una volta che l’hai vista, puoi accettarla. Michael era sul palco e sembrava come se avesse un raggio traente, aveva quel magnetismo, quel carisma per cui ogni sguardo era puntato su di lui. Siamo andati nel backstage ed eravamo di fronte al nulla, non era nessuno. Quando abbiamo iniziato a lavorare a Thriller, abbiamo parlato con Rick Baker, il make up artist, e con il direttore della fotografia. Avevamo tutti lavorato a Un lupo mannaro americano a Londra. John aveva spiegato il progetto dicendo «Ho scritto una pellicola di 15 minuti. Quindi non realizzeremo un video, lavoreremo come se fosse un film di 15 minuti». Nel mentre Michael stava registrando un album e io avevo i figli ancora molto piccoli. Lui voleva vedermi a orari come l’una del mattino, quindi preparavo i miei disegni, i miei bozzetti, andavo allo studio di registrazione, dormivo un po’ alla reception e quando si fermavano all’una o alle due del mattino, mi svegliavano e così gli mostravo il mio lavoro. La giacca doveva essere rossa. L’ambientazione era notturna, era all’interno di un cinema e poi in una strada, c’erano gli zombie e quindi bisognava che Michael si notasse chiaramente. Dovevo dargli una certa struttura. Proprio come per dare una forma a Harrison Ford. Michael era così minuto e sottile, come uno spaghetto. Quindi non aveva forme e dovevo renderlo mascolino perché nella scena era fuori con una ragazza, flirtava con lei. E poi erano gli anni Ottanta e potevo dargli delle spalle larghe. Se ci penso ora e mi guardo indietro, con quella giacca sembrava un po’ un supereroe, come Wolverine, con queste spalle così larghe. Per cui mi sentivo che la giacca potesse davvero essere solo di colore rosso e poi gli ho fatto indossare dei jeans rossi. Per il resto, lui conosceva e amava Fred Astaire e gli piaceva indossare come lui dei mocassini neri molto morbidi e dei calzini bianchi. Questa è stata una sua scelta. Questo in aggiunta ai jeans rossi che lo facevano sembrare più alto e alle spalle larghe per dare un po’ di mascolinità, le maniche tirate su e la V, sempre per dare un po’ di corposità. Due elementi per definire la sua fisicità, ma ero anche andata alle prove e lì avevo visto che anche la coreografia era a V. Michael era davanti alla V, ballando, e mi sono resa conto che il tutto funzionava. Sono convinta che gli strumenti più preziosi per un costume designer siano il colore e la silhouette. Quindi, quando lavori per creare una certa silhouette, che sia con un cappello, con la forma del corpo, lavorando in una cornice rettangolare, può essere qualcosa di davvero potente. Perché metti l’attore al centro e sei tu a tracciare il contorno dell’attore stesso. Per cui, in tanti costumi che ho realizzato, se guardi alla silhouette, puoi capire quale sia la personalità.

E Micheal Jackson era contento? Lui era un personaggio molto eccentrico. Non hai mai avuto problemi per i capricci di qualche star?

Deborah Nadoolman: Lavorare su Michael era molto facile per me. L’unica cosa che devo dire è che a me non piacciono molto le decorazioni. Non voglio cinte o spille varie. Volevo che fosse pulito, ma di base per me lui era molto facile. Non ho mai avuto problemi con gli attori, e li adoro tantissimo come adoravo tantissimo Michael. Ho lavorato per lui anche a Black or White nel 1991. In questo video c’erano moltissimi costumi, ma Michael indossa solo un paio di jeans neri e una camicia bianca, anche perché lui così era semplicemente elegante.

Facevo una connessione tra la giacca rissa di Thriller e quelle dei due ragazzi di Un lupo mannaro americano a Londra all’inizio. Quella del protagonista, che diventerà il lupo mannaro, è rossa, mentre quella del suo amico, che esce subito di scena, e di un colore scialbo, spento. Era un modo per evidenziare il ruolo principale?

Deborah Nadoolman: Assolutamente. Sono davvero terribile con le mie giacche rosse. Per Griffin Dunn, il ragazzo che viene ucciso, la cui giacca è più che altro di color terracotta, di un marrone chiaro, ho dovuto lavorare con Rick Baker perché sapevo ovviamente che avremmo dovuto fare vedere il sangue sulla giacca. Poteva essere verde, o blu o di altri colori? No. Quindi abbiamo deciso per il marrone chiaro, in modo che il sangue fosse visibile. Ecco come vengono prese le decisioni. Il personaggio nel film sarebbe stato ucciso, dovevamo poter vedere il sangue e quindi quale colore poteva andare bene? Ecco il lavoro del costume designer.
Quando i costumisti aprono le sceneggiature, il nostro lavoro è già lì dentro: quando avvengono i fatti, se è estate o inverno, se è giorno o notte, se è freddo o caldo. Alcuni di questi parametri vengono stabili per noi, è come usare Google Maps, mentre per quando riguarda il resto dobbiamo parlarne con il regista. E anche quei parametri vanno discussi perché magari il regista ha cambiato idea, ad esempio pensavamo di girare in Italia e poi abbiamo deciso per Toronto o un altro posto. Quindi per Un lupo mannaro americano a Londra sapevo che sarebbe stato di notte, sapevo che sarebbe stato freddo e che quei due ragazzi dovevano sembrare “strani” in quel contesto remoto inglese, che dovevano sembrare americani. A quei tempi nessuno in Inghilterra indossava il piumino, gli stivali Timberland o i jeans. Sembravano quasi alieni e così doveva essere, dovevano entrare nel pub e la gente si doveva chiedere chi fossero quei tizi.

In genere quando la gente vede un film è portata ad apprezzare il lavoro del regista, degli attori, anche del direttore della fotografia. Ma difficilmente si pensa al lavoro del costumista che pure è molto importante. Cosa ne pensi?

Deborah Nadoolman: Nel nostro campo, noi sappiamo che il nostro lavoro è sempre al centro del film. Sempre, non è mai sullo sfondo. Questo è il costume design. Altri stabiliscono il tipo di birra o il ristorante, ma un film non si fonda su un ristorante vuoto, si svolge con le conversazioni. Come può il costume design non essere importante? Questo ora riguarda me e te, ma il costume design sarà sempre legato alle persone, e le persone fanno la storia. Quindi noi sappiamo che è così, ma purtroppo in il pubblico e l’industria pensano che si tratti solo di vestiti. Ma noi ovviamente sappiamo che si tratta di creare personalità.

Il tuo lavoro è importante anche nel creare un’estetica che viene poi usata nella promozione, nei manifesti. Penso per esempio ai costumi messicani di I tre amigos! o alle pellicce di Chevy Chase e Dan Aykroyd in Spie come noi.

Deborah Nadoolman: [ride a crepapelle, N.d.R.] È molto divertente. Amo I tre amigos! e quei costumi. Erano bellissimi e mi ricordo ancora quando li stavano provando, c’erano Martin Short, Steve Martin e Chevy Chase a guardarsi tra loro, stavano benissimo. Pensando invece a Spie come noi, con tutte quelle pellicce, mi ricordo di averle fatte fare e ognuna pesava tantissimo ma loro erano al caldo durante le riprese a Sundal, in Norvegia, su un ghiacciaio a marzo. Era davvero freddo ma loro stavano bene, avevano le pellicce mentre noi indossavamo i moncler. Mi è piaciuto molto realizzare tutti quegli abiti che tra l’altro ora sono in un museo. In realtà è un grande onore e un po’ un mistero come tutti questi miei lavori siano finiti in musei. L’Autry Museum of the American West ha quelli de I tre amigos!, la giacca di Thriller è nel Rock and Roll Hall of Fame, quelle di The Blues Brothers sono in un museo di cultura popolare, mentre la giacca di Indiana Jones è allo Smithsonian. È molto interessante come questi costumi abbiamo trovato il loro posto in musei. Ma ho davvero amato I tre amigos!, è stata una gioia lavorarci e gli attori hanno amato tantissimo quei vestiti. Cerco di portare il mio senso dell’umorismo in ogni film.

Proprio quel senso dell’umorismo che tuo marito infonde nei suoi film.

Deborah Nadoolman: È lo stesso di John, ecco perché siamo sposati, è il segreto per un lungo matrimonio, avere lo stesso senso dell’umorismo. Stiamo insieme da 46 anni e lo so che è tanto. Potrebbe sembrare una vita davvero noiosa, nessun secondo marito. Penso di essere stata io a portare a John il mio senso dell’umorismo, come se facessimo parte di una commedia. Sia che si tratti di essere come in una ‘sight gag’, essere come Chevy e Danny nel film Spie come noi e quindi sembrare ridicoli, sia che si tratti di una scena tranquilla.

I grandi costumisti, come te o Milena Canonero, possono portare un contributo originale al film cui lavorano, anche facendo cambiare le idee originali di un regista?

Deborah Nadoolman: Certamente. O almeno, credo che i film ai quali lavoro, o per i quali mi occupo del design, assomigliano a me, hanno il mio gusto, come potrebbe essere altrimenti? Odio parlare solo delle giacche perché se no penso «Oh, metto davvero giacche rosse ovunque». Credo che Milena Canonero sia in realtà un esempio migliore. Se guardi Arancia meccanica, è fantastico. E poi anche Barry Lyndon è un capolavoro, come anche La mia Africa. E poi c’è Grand Budapest Hotel. Credo che Milena porti il suo enorme talento e il suo genio ai registi, lo depone ai loro piedi. Perché Stanley Kubrick, Sydney Pollack e Wes Anderson non hanno nulla a che vedere tra di loro se non per il tipo di lavoro che fanno, eppure lei ha portato il suo talento a tutti questi registi. Quindi, tutte queste opere hanno qualcosa di Milena anche se sono completamente differenti tra loro, lei ha servito la storia e il regista allo stesso tempo. È questo quello che ognuno di noi cerca di fare, non riguarda noi stessi, ma tutti cerchiamo di portare nel lavoro quel talento, quell’intelletto e una sensibilità culturale.

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