Barry Lyndon

Barry Lyndon

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Barry Lyndon, che trae la sua ispirazione dal romanzo picaresco di William Makepeace Thackeray, è il modo con cui l’uomo del 2001 Stanley Kubrick sceglie di entrare in connessione con il Secolo dei Lumi, rappresentandolo ben poco illuminato (a partire dal celeberrimo escamotage di girare a lume di candela) e già-morto, immobile come gli stupendi paesaggi ritratti dai pittori dell’epoca. Una riflessione, una volta di più, sul Tempo e sullo Spazio, con il cinema che ricorrendo alle arti (la pittura e la musica) si confronta con la Storia, e la sua fragilità.

Sarabanda

La vita, le avventure e gli amori di Redmond Barry, irlandese deciso a scalare il potere della società britannica del Diciottesimo Secolo… [sinossi]

Chi ha detto che quando l’osso è davvero caduto in terra è divenuto un’astronave che vaga nello spazio siderale? Lo stacco di montaggio più ardito – e temporalmente esteso, oltre quattro milioni di anni in un paio di secondi – della storia del cinema suppone un’ellissi che è al tempo stesso il tentativo di racchiudere in un momento l’esperienza dell’essere vivi, umani, contemporaneamente eterni e infinitesimali. C’è il futuro e il trapassato remoto, in quell’osso/astronave. Ma quel gesto di violenza e sopraffazione che è anche liberazione – la libertà estrema di poter uccidere l’altro uguale-a-sé e diverso-da-sé, prima della creazione del senso di colpa – sarebbe potuto divenire anche uno schiavo tracio rivoltoso nella Repubblica Romana, o un cowboy a cavallo di una bomba atomica, o ancora un marine statunitense in Vietnam, fucile in spalla e simbolo della pace disegnato sull’elmetto. Oltre, ovviamente, al giovane, irruento e scavezzacollo Redmond Barry. Le memorie di Barry Lyndon, insieme all’immediatamente successivo La fiera delle vanità l’opera letteraria portante della bibliografia di William Makepeace Thackeray, si apre sulle seguenti parole: «Dai tempi di Adamo, in questo mondo, non è stato commesso un danno senza che alla mia origine non ci fosse una donna. Sin dalle origini della nostra famiglia (in tempi che dovevano essere molto vicini a quelli di Adamo, tanto nobili, antichi, illustri sono i Barry, come ognuno sa), le donne hanno avuto una parte estremamente importante nei destini della stirpe. Penso che non ci sia persona in Europa che non abbia sentito parlare dei Barryogue, del regno di Irlanda: un più famoso nome si potrà trovare in Gwillim o D’Hozier; e, sebbene da uomo di mondo io abbia imparato a disprezzare con tutta l’anima le rivendicazioni di molti pretendenti ad un casato illustre, che non hanno genealogia più antica del servo che mi lucida le scarpe, e sebbene derida sprezzantemente le vanterie di molti miei compatrioti che si vorrebbero tutti discendenti dai re d’Irlanda, e che parlano di un loro fondo a stento sufficiente a nutrire un maiale, come se si trattasse di un principato, tuttavia l’amore della verità mi impone di affermare che la mia famiglia era la più nobile dell’isola, e, forse, di tutto il mondo; e che i suoi possedimenti, ora insignificanti, perduti in seguito alla guerra, al tradimento, all’andar degli anni, alla stravaganza dei miei maggiori, alla nostra fedeltà all’antica fede degli avi e al sovrano, erano anticamente di vastità inimmaginabile, e comprendevano molte contee, in un tempo in cui l’Irlanda era molto più ricca di ora». Al di là del tono sprezzante e sardonico, che rappresenta in modo così fondativo l’opera da essere utilizzato, a mo’ di voce narrante, anche da Stanley Kubrick nel suo “adattamento” (termine improprio quando si ha a che fare con il cinema di Kubrick, del tutto disinteressato al concetto basico di tradurre in immagini una parola pre-scritta, e teso semmai a una nuova identificazione del testo attraverso l’ottica, e dunque lo sguardo, muto come la scrittura e come esso altrettanto codificato), è interessante annotare come Thackeray apra un romanzo picaresco non su un’azione o sul suo personaggio protagonista – quello a cui concede addirittura il nome nel titolo, e su questo aspetto si tornerà più avanti nel corso della disamina – ma una collocazione concettuale dapprima temporale (“Dai tempi di Adamo”), quindi spaziale (“in questo mondo”), e infine sentimentale (“senza che all’origine non ci fosse una donna”). E allora, ben prima della segmentazione possibile dell’opera in cerchi concentrici di pura poetica espressiva ed estetica, ecco che Barry Lyndon appare kubrickiano nelle radici più profonde, essendo il suo cinema sempre proteso all’analisi possibile dell’umano – e dell’umano (im)possibile, come nel caso di HAL9000 (ma sarebbe stato così, c’è da scommetterci, anche se il regista avesse portato avanti in prima persona il progetto di A.I. poi affidato alle cure di Steven Spielberg – ma attraverso le categorie di Tempo e Spazio, e ai conflitti che esse ingenerano nel loro rapporto con la razza vivente più fallace, ma anche la più stratificata e intelligente (e proprio per questo, verrebbe da suggerire, fallace).

Rinuncia ciononostante a tale incipit, Kubrick, preferendo donare un altro passaggio alla voce narrante (Michael Hordern nella versione originale, Romolo Valli nello splendido adattamento italiano dei dialoghi), vale a dire il seguente: «Il padre di Barry era stato avviato, come molti altri figli di buona famiglia, alla professione di avvocato, e senza dubbio sarebbe diventato qualcuno nel suo campo se non fosse stato ucciso in duello». Nessun riferimento spaziale o temporale dunque, ma “solo” un’annotazione biografica carica di sulfureo sarcasmo, che però a sua volta contiene al proprio interno le tracce essenziali per permettere allo spettatore di muoversi in questa immensa cartografia della Storia e dell’Uomo – dell’uomo che fa la storia o della storia che schiaccia l’uomo. Si nota già il tema del ruolo sociale dell’individuo, del divenire qualcuno, che tanto corroderà l’animo di Redmond Barry, ma anche quello del duello che conduce alla morte. Una morte che aleggia dalla prima all’ultima inquadratura di Barry Lyndon, eppure allo stesso tempo non rientra pressoché mai nelle sinapsi dei personaggi, non inquina le relazioni perché ne è – si veda il concetto di duello – il fine ultimo, la resa dei conti, la pacificazione di un disequilibrio, sia esso reale o solamente supposto dai singoli. Si apre sull’inquadratura in campo lungo del padre del protagonista freddato dal suo avversario con un solo (semplice) colpo di pistola, il film, eppure in una certa misura non sarebbe così azzardato supporre che tutti i personaggi siano già morti. Sono morti storicamente, certo, ma questo discorso potrebbe tornar valido per tutti i film ambientati nel passato, e non necessariamente in un passato chissà quanto remoto. E si potrebbe dire che sono morti socialmente, visto e considerato che Kubrick chiude il film nel 1789, l’anno della Rivoluzione Francese che tutto avrebbe cambiato – con il tempo – nello scenario politico e sociale europeo: una scelta che non può essere casuale, visto che al contrario il romanzo si conclude in piena epoca napoleonica, nel 1811 (e fu pubblicato a non troppa distanza dai moti del 1848, a dimostrazione di un periodo storico in continuo, e generale, sommovimento). Ma c’è qualcosa in più nella raggelata compostezza pittorica che è senza dubbio uno dei tratti distintivi del film, nonché uno degli elementi più facilmente riconoscibili e decrittabili: i personaggi sono già morti perché assumono il loro ruolo come funzioni della Storia nella rappresentazione di un Vita ipotetica. Non esiste un Tempo logico per mettere in scena le vicende di Redmond Barry Lyndon, perché esso è già stato frantumato in partenza, nel tentativo – nostalgico? Difficile a dirsi, più che altro speculativo – di Thackeray di ripassare il Settecento quando oramai si è già a metà del secolo successivo. Dopotutto il salto mortale all’indietro di Kubrick è addirittura triplo, se si considera che meno di un decennio prima si era spinto fino a superare il Terzo Millennio, partendo dalla Preistoria per arrivare là dove l’umano non ha più senso. Ma aveva forse senso nel Diciottesimo Secolo? Il Settecento è il Secolo dei Lumi, ovviamente, ma anche del problema dell’induzione in Hume, dell’osservatore esterno di Adam Smith, della correlazione tra Filosofia e Filologia di Giambattista Vico, del common sense di Thomas Reid e della scuola scozzese, della distinzione tra fenomeno e noumeno di Kant. L’umano è indagato perché conoscibile o perché oramai superato? Qual è l’atto che ne certifica l’essere in vita? Con un ghigno ben piantato sul volto Kubrick sembra suggerire che questo sia uno e uno soltanto: il duello, quel vis à vis che divide l’apparentemente vivo dal sicuramente morto. Barry Lyndon è costellato di duelli, si apre – come già scritto – su uno di essi e traccia il percorso narrativo del suo protagonista attraverso una lunga sequela di scontri personali, sia tesi a una difesa della propria onorabilità sia puramente ludici, come avviene nell’incontro di boxe quando ancora si trova sotto le armi con il caporale dei Grenadiers o nel gioco con Bryan, il figlio avuto da Lady Lyndon e destinato a morte precoce – uno schema di esteriorizzazione storica (e dunque universale) del dolore privato che traccia una linea di collegamento tra Barry Lyndon e Via col vento, suo apparente opposto produttivo. I due duelli che viene naturale contrapporre sono però quelli che rispettivamente aprono la vicenda e preludono alla sua chiusura: il primo lo si è già citato, e ha come risultato la morte del padre di Redmond Barry. Il secondo, altra libertà presa rispetto al testo originale, vede l’uno di fronte all’altro ovviamente Barry con il figlioccio Lord Bullingdon che lo odia non tanto per avergli portato via il padre – morto d’infarto ossessionato dalle avance irrispettose nei suoi riguardi mosse da Barry alla sua consorte – ma per avergli sottratto l’affetto della madre (in una sottotrama edipica che nella filmografia kubrickiana riecheggerà solo, in modo laterale, nei lugubri corridoi dell’Overlook Hotel), e con esso anche una parte non indifferente del patrimonio che gli spetterebbe come erede. Se il primo duello Kubrick lo risolveva in un anonimo campo lungo, in cui gli esseri umani sono poco più che tasselli nel mosaico dell’inquadratura, assai meno portanti e centrali della natura che funge da scenografia pre-umana, il secondo è interamente concentrato sul destino dei personaggi in scena. La violenza che traspare dallo scontro tra patrigno e figlioccio, e che si esterna anche attraverso il conato di vomito che coglie Lord Bullingdon prima di sparare il suo colpo, segna uno scarto sensibile rispetto al resto della pellicola, e serve a depotenziare il discorso, fin troppo diffuso, sull’estetismo fine a se stesso del film, sull’innamoramento supposto di Kubrick per l’immagine, sulla perfezione come negazione della partecipazione a quel che prende corpo in scena.

È evidente, e lo si è già scritto, che Kubrick scelga una forma espressiva gelida, assolutista (non avrebbe senso d’altro canto un punto di vista parziale, come avveniva nel romanzo, visto che il cinema è in tutto e per tutto oggettivo, e non può fingere altrimenti), e dopotutto i personaggi sono morti prima ancora di apparire in scena, retaggio di un mondo perduto e scomparso nella Storia e dalla Storia a un tempo. Ciononostante sarebbe inopportuno, e purtroppo lo si è lungamente fatto, suggerire un innamoramento di Kubrick per l’immagine in sé, che esuli da una riflessione sul senso della stessa, sul suo utilizzo e dunque sulla sua funzione contemporanea e non certo passatista. Non vi è nulla di calligrafico, né di stucchevolmente ricamato, in Barry Lyndon, e la sequenza succitata – quella che vede un ragazzo non riuscire a trattenere il proprio vomito perché è a un passo dallo sparare a un uomo, per quanto reprobo ai suoi occhi esso sia – lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio. L’interrogativo da cui parte Kubrick, e che sottotraccia agita già le vesti un po’ immature di Fear and Desire, il suo esordio-non-esordio, il film che lui per primo avrebbe voluto nascondere per sempre agli occhi di tutti e che invece, con quell’immoralità inevitabile del Tempo, è sopravvissuto alla sua morte per riapparire agli occhi degli spettatori, un po’ come fanno la paura e il desiderio stessi a ben vedere, l’interrogati da cui parte Kubrick si diceva è uno e uno soltanto: come può essere rappresentato il Tempo che non è stato vissuto? Quali sono gli strumenti che il cinema può utilizzare a tale scopo? Non di certo la recitazione, che è forse l’elemento artistico più contemporaneo che esista, visto che il modo di muoversi, di modulare la voce, di corrucciare il volto e di esprimersi gergalmente cambia in modo radicale attraverso le epoche storiche (e in tal senso sarebbe necessario riflettere sul concetto di lingua quando si ri-mette in scena un’opera del passato, come ad esempio le tragedie Shakespeariane). E neanche il montaggio, che seca il tempo ma esiste solo dal Novecento in poi, e non è neanche possibile prenderlo in considerazione precedentemente alla data di nascita del Cinema. Quali sono le arti secolari che ancora oggi esprimono i medesimi concetti senza doversi piegare alle voluttà del moderno? La pittura, in primo luogo, e quindi la musica. La paesaggistica di John Constable e Thomas Gainsborough si fondono alla perfezione con i ritratti William Hoghart e la plastica dei movimenti di Francesco Hayez, per non parlare delle situazioni corali di Johann Zoffany o di Jean Antoine Watteau; ma anche l’illuminazione – non si tornerà sulla celeberrima scelta di utilizzare lenti Zeiss che permettessero le riprese al lume di candela, perché oramai è entrata di diritto nel chiacchiericcio attorno al film, divenendo non più elemento d’analisi ma pura (e in ciò sterile) curiosità – guarda a Joseph Wright of Derby, o Jean-Honoré Fragonard. Perché questo, per imitare l’arte che imita la vita? Assolutamente no. Kubrick trova nell’arte l’immobilismo indispensabile per raccontare un’epoca già-morta, ritorta su di sé. Lo stesso discorso vale anche per la musica, si tratti del Trio di Franz Schubert come della Marcia da Idomeneo, re di Creta di Mozart, passando da Paisiello, Bach e ovviamente Georg Friedrich Händel, che con la sua Sarabanda rappresenta il cuore pulsante – sempre con Schubert – del rapporto ideologico tra l’immagine e il suono, e dunque la realizzazione in movimento della Storia. Così come aveva immaginato il futuro attraverso la filosofia, Kubrick fa rivivere il passato attraverso la pittura. Da un punto di vista spaziale Redmond Barry è inserito non solo storicamente, ma anche iconograficamente nel suo contesto: ma a fronte di un’aderenza al Tempo raramente così forte in Kubrick (e si tenga di nuovo a mente la già citata fotografia “a lume di candela”), si subisce uno slittamento dal punto di vista dello Spazio. A conti fatti l’arrivista Barry è un uomo del Settecento osservato e sezionato con gli occhi di un uomo del Novecento: la stessa operazione di calco pittorico alla quale si faceva riferimento in precedenza, dopo aver messo in mostra la sua perfezione stilistica, viene in seguito svilita, resa contemporanea, demistificata e destrutturata dall’utilizzo dello zoom, che le entra dentro come un bisturi nella carne, suturando, straziando, recidendo. Nuovamente la contemporaneità serve a relazionarsi con il passato, è di nuovo la filosofia a correggere i vizi della Storia. Cinque – pochissimi – sono invece i movimenti di macchina a mano, chirurgici nel ricordare al pubblico il suo tempo, e dunque la sua Storia. Il Cinema non serve a raggelare la Storia – già gelida di suo – ma a sezionarla, squarciarla, per cercare disperatamente di ritrovarvi all’interno l’umano. Per ritrovare l’umano Kubrick però deve tenersi a debita distanza dagli uomini che si agitano all’interno della sua narrazione, ed è infatti a suo modo improprio ragionare su Barry Lyndon come il protagonista della vicenda: l’unico vero protagonista è il Tempo, il Settecento pre-rivoluzionario e morto, immoto, putrescente. Tutto è bello, in Barry Lyndon, a partire dalla rappresentazione della guerra, così rigorosa, elegante, dai colori sfavillanti (e chissà quali livelli avrebbe raggiunto il rapporto tra Cinema e Storia se Kubrick fosse riuscito a lavorare alla sua biografia di Napoleone Bonaparte), fino ad arrivare ai paesaggi, agli interni, alle situazioni conviviali, perché la patina serve a nascondere la marcescenza del reale, come il belletto serviva nel Settecento per coprire le impurità del volto e delle mani. Solo la morte, di nuovo e infine, può essere un obiettivo concreto, addirittura inevitabile, e (à la Totò) livellante. Così informa infatti la scritta bianca su schermo nero a guisa di conclusione, sempre ricorrendo alla collocazione dell’azione nel Tempo: «Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali».

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