Shining

Shining

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L’incursione di Stanley Kubrick nell’horror parte da una rilettura a dir poco personale di Shining di Stephen King, che infatti disconobbe l’adattamento; un’opera fondamentale per comprendere fino in fondo il senso dell’essere cinematografico di Kubrick, riflessione sullo spazio che diventa reinterpretazione del tempo. Con un Jack Nicholson entrato di diritto nella leggenda.

4 luglio 1921

Jack Torrance – ex istitutore e scrittore in crisi con tendenza all’alcoolismo – nella speranza di ritrovare se stesso e l’ispirazione accetta di fungere da custode per la stagione invernale dell’immenso e deserto Hotel Overlook, sulle Montagne Rocciose. Dieci anni prima, in analoghe circostanze, un uomo, prima di suicidarsi, ha fatto a pezzi le due figliolette e la moglie. Jack è al corrente dei precedenti, ma non se ne cura e raggiunge il posto con la moglie Wendy e il figlioletto Danny di sette anni. Il cuoco di colore Hallorann, dotato di “luccicanza” o preveggenza come Danny, è l’unico a temere il peggio… [sinossi]
Wendy, tesoro, luce della mia vita.
Non ti farò niente.
Solo che devi lasciarmi finire la frase.
Ho detto che non ti farò niente.
Soltanto quella testa te la spacco in due!
Quella tua testolina te la faccio a pezzi!
Jack Torrance, Shining

C’è un solo spazio apparente, in Shining: l’Overlook Hotel. Uno spazio dapprima guadagnato (Jack Torrance ottiene l’incarico di guardiano invernale), quindi raggiunto attraverso il viaggio in macchina, e infine occupato. In un unico frangente la macchina da presa esce dal perimetro del grande albergo, per osservare Dick Hallorann nel suo appartamento. Uno stacco che produce uno scarto di tempo, o per meglio dire di percezione del tempo. Hallorann, destinato a morire sotto i colpi dell’accetta di Jack, vive nel presente, e il suo letto è dominato dall’alto da un poster raffigurante la modella Azizi Johari, “Playmate del mese” nel 1975 (sul fatto che l’inquadratura possa rimandare alla mente un’immagine analoga in Grisbi di Jacques Becker si tornerà in seguito). Sceglie, lui che possiede lo shining, la luccicanza nell’edizione italiana, di abbandonare il proprio tempo per raggiungere un non-luogo, l’Overlook, e accettarne la discrasia temporale, l’annullamento del tempo “reale” a favore del tempo “percepito”.
C’è solo uno spazio apparente, in Shining: l’Overlook Hotel. Uno spazio che non ha tempo, uno spazio che irride il concetto stesso di tempo. Di linearità. Uno spazio-labirinto, trappola pronta a dimostrarsi letale, tanto all’esterno quanto in quel dedalo di corridoi che il piccolo Danny percorre instancabile sul suo triciclo. Uno spazio che vive il tempo come una serie infinita di strati, sovrapposti e destinati a confondersi. Per questo, forse, Stanley Kubrick decide di spezzare le macro sequenze di cui si compone Shining ricorrendo a riferimenti temporali alla resa dei conti completamente inutili. Il tempo e il suo svolgersi canonico è il primo concetto da abbandonare nel momento in cui ci si confronta a tu per tu con quello che inevitabilmente è stato considerato da subito uno dei film horror centrali per comprendere lo sviluppo del genere. Una lettura del tutto erronea, e non per il giudizio di merito. Da quando Kubrick ha abbandonato la via industriale più facilmente leggibile – in realtà non si è mai discostato dal concetto di “industria del cinema”, né ha mai scelto di scartare il mainstream; altro dettaglio su cui con troppa facilità si sorvola – per attraversare l’oceano e trovare conforto in Inghilterra, una parte consistente della critica ha lodato la scelta di permettere alla propria arte di farsi contagiare dal cinema “di genere”. Tutta la sua filmografia a partire da Il dottor Stranamore è sovente letta come una sortita in territori codificati, con l’intento di scardinarne i meccanismi: ecco dunque la comicità de Il dottor Stranamore, la fantascienza di 2001: Odissea nello spazio, la fantapolitica distopica di Arancia meccanica, l’ambientazione storica in costume in Barry Lyndon, il war movie con Full Metal Jacket, il thriller onirico di Eyes Wide Shut… E ovviamente l’horror di Shining.

La verità è che l’interesse di Kubrick non è mai stato, con ogni probabilità, quello di riscrivere la storia di un genere o ancor meno di nobilitarlo elevandolo a un ruolo che non gli viene di solito attribuito (dopotutto gli esordi del regista, da Fear and Desire a Spartacus, raccontano un’altra storia, se si è in grado di leggerla), ma di accedere a una visione del mondo, dell’umano quanto dell’inanimato, sfruttando le peculiarità narrative della letteratura, sia colta che popolare. L’immagine di Kubrick, quel monolite che cala di fronte allo spettatore certificandosi come l’IMMAGINE, il punto di ri-partenza del tutto, il centro nevralgico attorno al quale ruota l’umano affaticarsi, non è mai una firma in calce a un’opera astratta, per quanto ipotetici filologi filosofi del regista si siano beati di questa illusione. L’immagine di Kubrick, che non lascia scampo e non concede vie alternative (quelle che non ha neanche Wendy Torrance mentre si aggira tremebonda per le sale dell’albergo circondata da fantasmi che sono stati vomitati fuori dal tempo per riprendersi lo spazio che una volta era loro) è sempre il veicolo per una narrazione. Anche Jack Torrance, dopotutto, è un romanziere, e cerca di vivere – a fatica, vista la scarsa ispirazione – con le storie che racconta. Ogni film di Kubrick è un reticolo di narrazioni possibili; a volte portate avanti, altre volte abbandonate a favore di altre. Ogni film di Kubrick, compresa l’avanguardia cosmica di 2001: Odissea nello spazio, è un groviglio di storie pronte a prendere possesso dell’immagine. Non ha senso pretendere che il cinema di Kubrick sia un simulacro, un’apparenza che pretende di valere per la stessa realtà senza rimandare ad alcuna realtà sotto-giacente. Rendere elitario Kubrick è un errore. Un errore grave.
Non è certo un caso che il regista di Lolita apprezzasse in maniera particolare il lavoro di Steven Spielberg e David Lynch. In questi due “amori” cinefili si può forse comprendere in maniera attenta sia lo sviluppo narrativo di Shining sia la sua componente strettamente orrorifica. Non ha sbagliato chi, nel corso degli anni, ha definito Shining il più spielbergiano dei film di Kubrick: nell’architettura fotografica, nel posizionamento della macchina da presa ad altezza-bambino (Danny non è mai sovrastato nel rapporto con i suoi genitori dalle scelte di quadro, al punto che la sequenza che si concluderà “probabilmente” con i colpi inferti al piccolo dal padre vede Jack seduto sul letto), perfino nel rapporto dei personaggi con la modernità – il televisore, unico punto di contatto con il mondo esterno a parte la radiotrasmittente collegata alla stazione di polizia – è possibile rintracciare alcuni dei punti chiave del cinema di Spielberg, a partire dal quasi coevo Incontri ravvicinati del terzo tipo. Allo stesso modo lo stupore di fronte all’orrore, al bizzarro, all’ignoto, a quell’angolo cieco dietro il quale può celarsi qualsiasi cosa, non è dissimile dallo studio sul perturbante condotto nel corso dei decenni da Lynch, e che raggiunge il suo apice tra Mulholland Drive e l’ultima maestosa stagione di Twin Peaks.

L’immagine in Kubrick ha un suo tempo e ha memoria dei tempi che l’hanno preceduta: ecco spiegati quelli che alcuni, soprattutto negli ultimi anni, magari facendo ricorso a quella categoria ancora tutta da elaborare e a uno stanto embrionale – e quindi confusionale – che viene chiamata critofilm, hanno definito “plagi”. Shining cita opere a lui precedenti: e se anche fosse? Quale sarebbe il crimine nel riconoscere nell’ascia scagliata contro la porta della stanza in cui si è rinchiusa Wendy riflessi del Griffith di Giglio infranto o del Sjöström de Il carrettiere della notte? Se per molti è strano rivedere in Shining il cinema di Ingmar Bergman, riferimenti a Il ponte sul fiume Kwai e al già citato Grisbi o addirittura a horror di quegli anni come The Omen, è perché si è voluto staccare Kubrick dal proprio tempo per spingerlo al di sopra della massa, quasi che fosse una divinità inattaccabile, intangibile. Si è smarrito il contatto umano con Kubrick, lo si è sacralizzato e così facendo, invece di rendergli giustizia, lo si è sottilmente – e inconsapevolmente – vilipeso.
Shining non è un capolavoro del cinema horror e non solo horror perché inimitabile. È un capolavoro perché partendo da una situazione di per sé canonica – la famiglia borghese che si trova a fronteggiare minacce in un luogo chiuso – ha la forza e la capacità di deviare dalla prassi per intraprendere viaggi tortuosi nella psiche, dimostrando la futilità di concetti come reale o soprannaturale se essi non diventano altro rispetto a ciò che appaiono. Gli spettri di Shining diventano realmente spaventosi quando cambiano forma. La sequenza nel bagno della stanza 237, dove Jack trova una bellissima donna pronta a diventare una megera in via di decomposizione tra le sue braccia, è forse il detour centrale dell’intero film: in quell’invecchiamento in tempo reale – quasi un presagio dell’effetto speciale in diretta ideato da Rick Baker per Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis – c’è l’orrore puro. Il rapporto con la morte che si fa vita per morire di nuovo di fronte agli occhi di Jack. La mente non può che perdersi di fronte a un incontro simile. Negli occhi di un disgustato e frastornato Torrance c’è l’orrore di tutti gli spettatori, invecchiati a loro volta in quei secondi che ricordano come il tempo, per quanto sappia farsi ghiribizzo, scorre. Passa. Non torna indietro se non per umiliare e intrappolare una volta di più, magari in una bella fotografia di un giorno di festa di sessant’anni prima, quando ancora non si era nati. Ma già si era, senza che nessuno lo sapesse.

C’è un solo spazio apparente, in Shining: l’Overlook Hotel. Tutto è nel ventre dell’Overlook Hotel. Tutte le letture sono plausibili, e perciò inutili seppur meravigliose. Inutili perché meravigliose. È un intrico di labirintici passaggi di corridoio in corridoio, vuoti fino a quando non si riempiono di ectoplasmi che lì non sono mai stati. “Sono come le figure dentro un libro, Danny. Non sono cose vere”, spiega Hallorann al bambino. Resta solo lo spazio, in cui tutti i tempi e tutte le storie possono trovare la propria rappresentazione: la storia della famiglia Torrance, quella del signor Grady che massacrò la moglie e le due figliolette gemelle, quella di una festa del 4 luglio, per festeggiare l’indipendenza, rinchiusa in una fotografia che campeggia su un muro nella hall dell’albergo, e alla quale si avvicina la macchina da presa quando ormai il film è finito, nello stesso percorso dello spazio-tempo vissuto da Michael Snow in Wavelenght.
Volontariamente imprigionatosi nello Spazio, Jack Torrance si ritrova di colpo ingabbiato anche nel Tempo, figura eterna e immutabile, eppure non estranea alla morte. Quelli che nel romanzo di Stephen King non sono altro che puri fantasmi qui diventano il simbolo degli spazi paralleli, dell’atemporalità delle percezioni, e acquistano il loro senso ultimo proprio nella succitata foto finale, quella che ritrae (finalmente) Torrance pronto a essere ovunque, e da nessuna parte.
L’Overlook Hotel, in una interpretazione perfino troppo banale, è (nel)la mente di Torrance, ma è cinema nel suo stesso comporsi come non-luogo dell’immagine, teatro muto dell’esperienza umana, anche la più terribile. Si guarda il sangue invadere il salone uscendo dagli ascensori così come si guarda lo schermo. E quel sangue è sullo schermo. Un invito alla visione infinita e atemporale. Il grande racconto imperdibile di un bambino e della sua necessaria ribellione al potere paterno. Si può guardare Shining con gli occhi più diversi, e trovarsi allucinati annichiliti nello stesso luogo d’arrivo. Congelati sotto la neve o in fuga verso una libertà che può essere solo altrove. C’è uno sguardo solo dietro Shining, ma ce ne sono molteplici davanti allo schermo. Si può ripartire da qui per comprendere forse meglio la dittatura di Kubrick e il cinema-astronave-monolite-osso. Sempre che si possa resistere alla paura che avvinghia chiunque si avvicini a Shining: sul grande schermo, o dove preferite.

ps. All’edizione numero settantadue del Festival di Cannes, nel 2019, è stato presentato al pubblico e agli accreditati il restauro in digitale della versione americana del film, lunga ben 144 minuti e comprendente alcune sequenza allungate, altre completamente eliminate dalla versione europea e con alcune soluzioni di montaggio, in particolar modo nell’utilizzo del campo controcampo diverse. Al di là del godimento al limite del feticismo di poter vedere materiale in più, e inoltre sul grande schermo, va detto che la versione a cui è abituato il pubblico italiano è da considerare “migliore”, o quantomeno preferibile. Alcune sequenze che in Europa non arrivarono (è giusto specificare come entrambi i montaggi avessero l’avallo completo di Kubrick), come il dialogo tra Wendy e la dottoressa in cui viene quasi da subito a galla il fatto che quand’era alcolizzato Jack Torrence ha lussato una spalla al figlioletto, o come la sequenza del colloquio – dal quale è stato escluso un inutile passaggio in cui Ullman spiegava a Jack per quale motivo l’Overlook Hotel restasse chiuso d’inverno senza sfruttare la stagione sciistica – appesantiscono il racconto, aggiungendo dettagli o inessenziali o che sarebbe meglio sentir arrivare senza troppe spiegazioni, lasciando allo spettatore quel senso di misterico che è parte integrante del valore della pellicola. È più lunga, senza aggiungere inquietudine, la visione di Wendy durante il prefinale (ci sono anche degli scheletri in bella vista nel salone), ed è lunghissimo l’ingresso all’Overlook di Halloran, che spezza dunque quel brutale effetto con Jack che lo coglieva di sorpresa infliggendogli un colpo mortale con l’ascia. Non è stato possibile vedere però i due minuti esclusi fin dal 1980, quelli per volere di Kubrick stesso, in cui dopo la morte per congelamento dello scrittore impazzito ci si spostava in un ospedale, per mostrare la convalescenza di Wendy e Danny. Quei due minuti restano a quasi quarant’anni di distanza dall’uscita del film la vera gemma segreta per gli appassionati cultori. Il film, al di là di tutto ciò, resta un monolitico capolavoro.

Info
Il trailer italiano di Shining.
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