David Lynch, un alchimista intrappolato nel sogno
Il cinema di David Lynch, fra le esperienza autoriali più ammalianti e stratificate degli ultimi trent’anni, si muove nella sottile linea di demarcazione che divide l’avanguardia dal popolare, in un percorso che si intesse attraverso l’utilizzo del luogo comune, per svelare l’anima duplice (triplice, quadruplice) delle cose.
Fra la miriade di autori che gli Stati Uniti hanno cresciuto negli ultimi trent’anni la figura di David Lynch assume un’aura che sfiora, nelle sue estremizzazioni, l’astrazione più totale. Un regista la cui poetica viene solitamente identificata nel sogno, sminuendo di fatto la reale portata della sua personale “rivoluzione” cinematografica. L’avvolgente cappa onirica che pervade le opere di Lynch, dagli esordi destrutturati di Alphabet e The Grandmother alla prima parvenza di narrazione in Eraserhead, dall’incontro con le major in The Elephant Man al dualismo eterno dei film gemelli Lost Highway/Mulholland Drive – film speculari fra di loro e che presentano al loro interno la doppia faccia della propria essenza – si pone in netto contrasto con l’altra inossidabile ossessione lynchiana, il “luogo comune”.
Figlio di un’America, quella degli anni Cinquanta, in cui convivevano amori adolescenziali e violenza, il ribellismo divistico di James Dean e l’elogio della tradizione dei brani di Perry Como, e in cui le paranoie da Guerra Fredda e da bomba atomica venivano riversate su pellicola dando vita a classici della fantascienza come The Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi), Lynch nelle sue opere non fa altro che mescolare le memorie infantili agli incubi contemporanei, creando un substrato emozionale quasi impermeabile, gonfio di pathos e al contempo profondamente intriso d’ironia, di leggerezza e di pace. Un cinema che cita gli anni Cinquanta facendoli rivivere negli Ottanta e Novanta e di fatto distorcendoli, svelandone gli aspetti più impuri, amplificando le immancabili zone d’ombra, riflettendo un universo deviato, angosciante nella sua totale impossibilità ad esistere.
La più folle delle pretese, a conti fatti, appare proprio quella di voler interpretare tutto ciò che Lynch mostra alla sua platea, operazione che ancor più che di difficile realizzazione appare completamente vuota di significato: proprio per la sua natura contrastante, avanguardia artistica che vive e trova la sua definizione solo attraverso i topoi della cultura popolare, il cinema di David Lynch si autodetermina, vivendo di vita propria, del tutto staccato dalle zavorre dei generi, delle classificazioni, dei confronti.
Cinema come vera e propria esperienza autoriale, nel senso meno deteriorato del termine, decodificabile e nel quale è possibile riscontrare elementi di serialità, punti fermi, reiterazioni. Per l’appunto: luoghi comuni.
In questo excursus, stimolato e rinvigorito dalla visione del quintessenziale Mulholland Drive inevitabilmente incompleto si cercherà di analizzare il rapporto di Lynch con l’incubo industriale e la serialità, con il pop e la cultura statunitense, con la figura geometrica conosciuta come Nastro di Moebius, e con quella parentesi onirica che con troppa facilità è stata letta come una dismissione di senso reale, un abbandono ai flutti tra le braccia di Morfeo. Consapevoli della finitezza e dell’incompletezza, a loro volta indispensabili compagne di viaggio.