Arancia meccanica

Arancia meccanica

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Arancia meccanica, il più ipercinetico, delirante e lisergico dei film diretti da Stanley Kubrick, è anche forse il più tetro, quello maggiormente privo di speranza. L’individuo umano è vittima dalla società perfino quando ne è il carnefice, e il pop è solo una patina plastificata tesa a nascondere la carne putrescente nella bara della comunità.

Povera povera lei

In cerca di emozioni forti, Alex quotidianamente compie azioni criminali. Viene arrestato e sottoposto ad un trattamento che lo condiziona alla non violenza. Uscito di galera tutte le persone che hanno subito da lui violenze gli si ritorcono contro. [sinossi]
I’m singin’ in the rain, just singin’ in the rain
What a glorious feeling I’m happy again
I’m laughing at clouds so dark above
The sun’s in my heart and I’m ready for love
Let the stormy clouds chase everyone from the place
Come on with the rain, I’ve a smile on my face
I’ll walk down the lane with a happy refrain
And singin’ just singin’ in the rain
Gene Kelly, Singin’ in the Rain.

Si faccia un salto indietro, e si torni al 1968. C’è un Sessantotto sociale, con il maggio in piazza, e un Sessantotto filosofico. C’è una filosofia che analizza l’immagine e la pone al centro della riflessione sul Capitale («Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione», così Guy Debord inaugura il rapporto con il lettore ne La società dello spettacolo) e la filosofia che indaga il Tempo e lo Spazio, unici tasselli possibili nella ri-costruzione di un centro del racconto, della narrazione e dunque con la storia – esse minuscola – della Storia – esse maiuscola. Solo Stanley Kubrick, nel cuore del sommovimento socio-politico, con la guerra del Vietnam che avanza bruciando il cuore della giungla (per volontà democratica di Lyndon Johnson) e le proteste studentesche e operaie, ha il coraggio e l’intelligenza di delocalizzare la catastrofe viaggiando come Odisseo nel buco nero dello spazio-tempo, là dove suoni e luci, la base del cinema, hanno il dominio sull’apparenza superficiale del senso. In quello spazio fuori dal tempo – e fuori anche dallo spazio conosciuto – l’astronauta David Bowman si ri-trova in una stanza in stile Impero, dominata da un bianco accecante. Il bianco è anche il colore acromatico che contraddistingue in buona sostanza Arancia meccanica: bianchi sono i vestiti dei drughi, gli scherani che affiancano Alex DeLarge nelle sue scorribande notturne; bianco e il latte, l’alimento – non privo di additivi, tanto da meritare l’appellativo di Lattepiù – principe della dieta di questi adolescenti debosciati; bianca è infine la struttura portante della scenografia del Korova Milk Bar, punto di ritrovo avant-pop della banda. Esattamente come il Lattepiù anche il bianco deriva dall’addizione dei colori primari. La sintesi additiva di tutti i colori dello spettro visibile è anche il risultato che in una qualche misura raggiunge Arancia meccanica, oggetto deviato all’interno di una filmografia contrappuntata di oggetti deviati, e in ultima istanza devianti (nel senso puro di sviatori del tracciato preordinato), che debordianamente ragiona sull’immagine come risultato di un accumulo di spettacoli, e dunque come rappresentazione non del vero, ma dell’immagine condivisa del plausibile. Se è vero, ed è indiscutibilmente vero, che l’immagine sia di per sé un atto politico, perché lo sguardo altro non è che l’angolazione dalla quale e attraverso la quale si osserva il mondo – visto anche dallo spazio dal feto – Arancia meccanica è lo svelamento palese di una straripante necessità dell’elemento sociale di rivendicare la sua essenza strettamente politica. Non è anomalo per Kubrick ricorrere al testo già redatto per appuntare le idee che serviranno a costruire il discorso per immagini: in realtà quasi ogni suo film deriva direttamente e in modo dichiarato da un romanzo, un racconto, una novella (fanno eccezione solo gli “imberbi” Paura e desiderio e Il bacio dell’assassino). Il rapporto con il testo scritto – e in tal senso l’esempio di Lolita è a dir poco paradigmatico – non è però mai pacificato, né tanto meno prono. Si tratta di nuovo di entrare in conflitto con il contemporaneo, con qualcosa che ha una storicizzazione sociale, un’analisi che la colloca direttamente nel suo Tempo. Il romanzo di Anthony Burgess, pubblicato nel 1962 e tradotto per la prima volta in Italia nel 1969 con il titolo Un’arancia a orologeria, fece scalpore, per quanto in Europa (al contrario degli Stati Uniti) sia depotenziato in modo quasi clamoroso da un capitolo finale che tende a smussare gli angoli arrivando a ribaltare completamente il processo psicologico e sociale di Alex, che esce di prigione, torna a casa e confida di voler divenire un adulto rispettabile, un borghese con moglie/figli/casa. Per quanto abbia affermato di non aver letto tale finale se non dopo aver diretto il film – probabilmente perché in possesso di una copia del libro edita negli Stati Uniti – è presumibile che in ogni caso Kubrick avrebbe scelto di rimanere completamente infedele rispetto alle scelte di Burgess. Se è vero che per capire il senso primigenio (o forse innato) di Arancia meccanica occorre tornare al Sessantotto, è altrettanto vero che per chiudere l’analisi del film è indispensabile imbattersi nel primo piano “doppiamente guarito” di Alex – guarito dalla sua vita pregressa, nell’illegalità, ma anche dalla Cura Ludovico: vi si tornerà più avanti – che chiude, con una potenza difficile da eguagliare, la pellicola. Il sorriso sfoggiato da Malcolm McDowell, che proprio nel ’68 e col ’68 aveva esordito nella recitazione cinematografica (in If… di Lindsay Anderson), racchiude, come il feto spaziale dell’Odissea, il senso dell’intera operazione.

È un film sulla lobotomia, Arancia meccanica. La lobotomia sociale, raffigurata principalmente nei signori DeLarge, i genitori di Alex (che arrivano ad affittare la stanza del figlio mentre lui è in carcere, per poi preferire il nuovo inquilino al sangue del loro stesso sangue); la lobotomia come strumento politico, alla base della “Cura Ludovico”; la lobotomia come simbolo di tempi iper-veloci e svuotati di un senso che non sia strettamente estetico. Come sarà per Barry Lyndon, che trova nel rimando pittorico il modo per immobilizzare il Tempo e penetrarvi all’interno, così le scenografie pop dell’Inghilterra avveniristica eppur contemporanea sono Arancia meccanica. Unico film di Kubrick a non trovare una collocazione temporale precisa (al punto che taluni tendono a leggerlo anche come appartenente al filone della fantascienza dispotica, per quanto non esistano elementi tecnologici in grado di avallare una simile disposizione nello scacchiere, sempre impreciso, dei generi) Arancia meccanica è più di altri figlio di umori a lui coevi, dalla rappresentazione di bande giovanili all’idea di uno Stato poliziesco, rieducativo attraverso la coercizione. Per testimoniare una tale aderenza al tempo vigente Kubrick parla di droghe, mostra discoteche in cui i ragazzi vanno ad ascoltare musica – sia essa pop o classica – ma anche a rimorchiare, utilizza il cinema come elemento di scena (sarà così anche con la troupe che sta girando il documentario di guerra in Full Metal Jacket). La “Cura Ludovico” è applicabile solo attraverso l’immagine in movimento, può raggiungere il proprio scopo – la suddetta rieducazione – solo ricorrendo al cinema, alla finzione, alla costruzione di senso attraverso il montaggio. Il Cinema sarà pure la cura, ma solo perché l’immagine è gestita dallo Stato, dall’organismo di controllo, da chi gestisce al cosa pubblica. L’estasi di Alex diventa la sua dannazione, il godimento erotico si trasforma in castrazione, l’orgia ideale in rigurgito delle proprie scorie. La sua alterità non è più possibile, per quanto persista inculcata nel suo stesso nome e patronimico. Alex DeLarge. A-lex, “senza legge”, ma anche DeLarge, extra-large. L’ultra-umano che era uomo spaziale diventa ultra-umano terreno, übermensch che si colloca oltre ogni cosa: Alex sopravvive a tutto perché è già ultra-uomo, resistente alla prigione, alla cura dalla prigione, alla contro-cura degli oppositori governativi, alle botte dei suoi ex-sodali ora divenuti poliziotti, perfino a se stesso. Lui è immortale, come le note del “ludovico van”. Nella catastrofe dell’oggi, nell’apocalisse del senso sfuggito dalla filosofia per rimanere impresso solo all’immagine vuota, plastificata, tutto deve muoversi verso l’eccesso e il suo opposto. Kubrick lo sintetizza sfruttando gli escamotage che gli mette a disposizione la tecnica di ripresa e di montaggio: per questo Arancia meccanica può muoversi avanti e indietro, velocizzando e rallentando l’immagine, perché l’iper e il suo diretto contrario sono alla base del senso del vivere, negli anni Sessanta e Settanta come oggi. Tutto viene esasperato in Arancia meccanica, e proprio per questo diventa sorprendentemente vero, pur nella palesata finzione.

Se nel suo liberissimo adattamento Vinyl, diretto nel 1965, Andy Warhol asciugava al massimo le linee “narrative”, riuscendo a suggerire l’impossibilità di tenere in quadro Alex (lì il cognome è Kevlevich) con l’ingresso e l’uscita dai margini dell’immagine del primo piano di Gerard Malanga, il ragionamento che Kubrick conduce riguarda sempre anche la sua stessa forma produttiva. L’analisi kubrickiana non dimentica mai infatti la creazione di un oggetto, con tutto quel che questo può significare. Come può l’industria (o la sua stessa negazione) raccontare una violenza così estrema senza mettere in gioco la sua stessa tecnica, le potenzialità della fotografia, i ritmi incessanti del montaggio? Come può prescindere il cinema da una riflessione continua e priva di limiti possibili sul suo tempo, e dunque sul tempo tanto della narrazione – e si torna ai ralenti e all’accelerazione “rossiniana” del rapporto sessuale a tre – quanto nella narrazione, in un presente distopico ma neanche così tanto distante dal vero? L’utilizzo della musica, in questo senso, è sempre determinante per scorgere le traiettorie kubrickiane. L’andamento della colonna sonora è l’oscillazione perpetua della vertebra che sorregge l’intera struttura scheletrica del film. Può la musica essere essa stessa, anche senza il ricorso all’immagine in quanto tale, violenta? La “Cura Ludovico” spinge a non sostenere il concetto di atto barbarico, ma l’unico effetto reale che ha è quello di rendere indigesto Ludwig Van Beethoven al povero Alex. Il tentativo di suicidio non è legato all’impossibilità di dare libero sfogo alla propria natura belluina, ma all’incapacità di sostenere l’ascolto della musica che preconizzava, prima ancora della fase videns, il desiderio di conquista, dominio e svilimento del ragazzo. Il cinema è un organismo complesso, e la vista rappresenta solo uno dei sensi che mette in movimento, non necessariamente il primigenio: un’opzione apparentemente eretica, e ancor più logica dunque in un film che fa dell’eresia il punto di caduta filosofico ideale. In quest’ottica assume un valore peculiare la stra-citata sequenza della violenza sessuale sulle note di Singin’ in the Rain: l’atto di violenza in sé sarebbe tollerabile da uno sguardo adulto del 1971, ma diventa qualcosa di insostenibile (a mo’ di Cura Ludovico) perché il rimando sonoro, uditivo, trascina lo spettatore altrove, nell’immagine iconica ma anche aulica e rassicurante di Gene Kelly aggrappato a un lampione sotto una buriana di pioggia. Una sequenza dolce che come tale si è incistata nell’occhio cinefilo, e viene ora brutalmente espulsa – stupro nel senso etimologico del termine – e ricollocata in uno spazio altro, in un non-luogo insalubre in cui le cadenze ritmiche sono scandite da calci e bastonate. La normalità del sentimento amoroso è sostituita da Kubrick nell’altrettanto normale (per quanto socialmente inaccettabile) sprezzo della vita altrui. Un atto di vitalità devitalizzata, di ubris marcescente, che ha pochi eguali nella storia del cinema.

Alex è anche l’unico vero protagonista del cinema di Kubrick che trova in sé la forza e la capacità di trionfare: a fronte di una pletora di sconfitti, tipici del trionfo/catastrofe in Kubrick, Alex non credendo in nulla e non lasciandosi davvero permeare da nulla può essere davvero il maschio alfa di una società così ideologica (ideologia del potere, pura e semplice, senza vergogna) da poter essere colonizzata, dominata, guardata dall’alto – over-look. Neanche il soldato Joker, altro essere umano costretto al nichilismo, potrà dire lo stesso, in quanto la sua è soprattutto sopravvivenza, più che reale vittoria. In questo senso, in modo paradossale, Alex è anche l’unico eroe propriamente detto del cinema di Kubrick. E poco importa che il suo trionfo rappresenti anche la caduta definitiva dell’umano. Il soggetto pensante è il nemico della società, usare il gulliver non è un atto né apprezzato né premiato. L’individuo è intessuto nella società solo quando può essere utilizzato meramente ai suoi scopi, quali essi siano: gli iperviolenti stupratori cresciuti affianco ad Alex possono diventare cittadini rispettabili solo perché viene loro fatta indossare una divisa, senza che si sviluppi nulla da un punto di vista sentimentale, emotivo o psicologico nelle loro esperienze di vita. Proprio nella sua lucentezza lisergica, nella sua survoltata vitalità, nel suo espansivo divertimento tanto visivo (lo spettacolo) quanto uditivo, Arancia meccanica si dimostra il più tetro, disperato e privo di speranza tra i film diretti da Kubrick. I movimenti di macchina mai così deliranti, e non lo saranno mai più – il rigor mortis di Barry Lyndon è lì dietro l’angolo –, scoperchiano la bara di una società non corrotta, decrepita e putrescente. Alex è l’unico vivo in un mondo di morti viventi. E l’unico vivo è un uomo che prova piacere solo attraverso la violenza, fisica e verbale, concettuale, concreta e astratta. E il suo sorriso conclusivo prelude a un futuro perfino più terrorizzante di un mondo robotizzato.

ps. Val la pena sottolineare lo straordinario adattamento italiano dei dialoghi, che riesce a rendere la multiforme ricchezza dell’originale con soluzioni espressive sorprendenti, e destinate a rimanere impresse nella memoria cinefila.
Info
Il trailer italiano di Arancia meccanica.
Il trailer originale di Arancia meccanica.
La scheda di Arancia meccanica sul sito della Warner.

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