W.

W. è il terzo film dedicato da Oliver Stone a un presidente degli Stati Uniti d’America dopo JFK – Un caso ancora aperto e Nixon – Gli intrighi del potere, ed è nettamente il più sarcastico e in qualche modo “giocoso”.

The Man Who Sold the World

La pellicola presenta i fatti salienti della presidenza degli Stati Uniti di George W. Bush, alternandoli con episodi precedenti della vita del protagonista. [sinossi]

Se facessimo un gioco saremmo pronti a scommettere un bel gruzzolo sull’ipotesi che W., il film che Oliver Stone ha costruito addosso alla figura del presidente uscente degli Stati Uniti d’America, sia l’opera cinematografica su cui si sia più discusso prima ancora che qualcuno avesse modo di vederla. Per usare il gergo in voga a Washington durante gli otto anni di presidenza Bush, si potrebbe tranquillamente affermare che contro W. sia stata dichiarata una vera e propria “guerra preventiva”. Guerra ancora in atto, se è vero che in Italia, tanto per fare un esempio che ci tocca da vicino, nessuno ha ancora avuto la brillante idea di comprare il film (e altri festival, precedenti a Torino, hanno pensato bene di evitare la gatta da pelare, escludendo la pellicola dal lotto dei selezionati): discorso questo che ci porterebbe lontano, e ci costringerebbe a scoperchiare un nido di vespe sotto gli occhi di tutti, ma che molti preferiscono far finta di non vedere.
Ma tant’è, cerchiamo di uscire per un momento da questa polemica e di rituffarci a capo fitto nella disamina del film, che sembra il modo migliore (probabilmente l’unico) per dare giustizia al diciassettesimo lungometraggio di finzione di Stone. Ci piacerebbe sapere perché, per esempio, nessuno finora ha fatto leva sul coraggio alla base dell’operazione W.: c’è stato un gran parlare riguardo la scelta di Stone di tornare a descrivere l’America e le sue storture attraverso una biografia di un presidente, come già era avvenuto in JFK e Nixon, ma non si è tenuto conto della peculiarità che distingue immediatamente W. dai due film sopracitati. Laddove poteva esser facile, in ogni senso, lavorare di pennello su due figure, Kennedy e Bush, entrate prepotentemente nel Mito prima ancora di dover pagare dazio alla Storia, ben altre problematiche comporta doversi misurare con la contemporaneità; perché, e sarebbe scorretto non specificarlo, l’intero iter produttivo dell’ultima fatica di Stone si è svolto quando George W. Bush era ancora presidente in carica. E non solo per le fin troppe ovvie pressioni che la troupe può aver subito durante la lavorazione, ma anche perché nel prendere di petto un lasso di tempo così ravvicinato e allo stesso tempo carico di eventi che hanno di fatto segnato in maniera indelebile il destino del mondo occidentale, si corre facilmente il rischio di cadere nella trappola della retorica e della faziosità. Diventa dunque a nostro modo di vedere ulteriormente rimarchevole il risultato finale di W..

Intendiamoci, non che non vi sia una presa di posizione netta nel mettere in scena il personaggio: le riflessioni politiche di Stone non si scoprono di certo oggi, e solo uno sprovveduto potrebbe uscire dalla sala “sorpreso” da ciò a cui ha assistito. Solo che il regista statunitense, a fronte di una serie di avvenimenti chiave mostrati solo lateralmente (il crollo delle Twin Towers, le criminali campagne contro Afghanistan e Iraq) preferisce mostrare il lato privato, addirittura intimo, di Bush; se lo scandaloso broglio elettorale perpetrato in Florida durante le presidenziali vinte contro Gore ci viene raccontato solo attraverso un sibillino riferimento di Bush padre in un caustico dialogo con il figlio alla sala ovale, ben altro respiro è assegnato alle esperienze di vita del giovane rampollo della casata durante gli anni del college e le prime esperienze lavorative. George W. Bush jr. davanti ai nostri occhi si trasforma in un ragazzone non troppo intelligente, amante solo dello sport, della pesca e delle belle ragazze, impegnato a licenziarsi da qualsiasi lavoro e a passare le sue serate in squallide bettole di terza classe, in compagnia di sciantose e ubriaconi, con una birra in mano e il cappello da cowboy ben piazzato in testa.

E il background culturale “vaccaro” è uno dei dettagli su cui più si sofferma lo Stone regista (nonostante un montaggio avvolgente e una narrazione tutt’altro che lineare, lo stile è più trattenuto che in passato, rispetto soprattutto alle sarabande di formato e grana che arricchivano il profilmico di JFK; un’altra affermazione di pervicace aderenza alla contemporaneità, luogo temporale che non ha il diritto di potersi ancora confrontare con il mito), indugiando su cappelli, stivali, cinturoni, occhiali da sole, barbecue all’aperto. È proprio durante uno di questi che lo scapestrato W incontrerà la futura moglie Laura – bravissima Elizabeth Banks: era difficile non scomparire di fianco a un monumentale Josh Brolin, e lei ci riesce con una naturalezza assolutamente da applaudire -, elemento chiave di quella graduale maturazione che lo porterà a raggiungere la Casa Bianca. Ma Stone non ha rispetto alcuno per il personaggio Bush, o per lo meno non gli attribuisce il peso storico che riconosceva, al di là di ogni differenza ideologica, a Richard Nixon; se il presidente del Watergate si trasformava nelle mani di Stone in una maschera tragica di stampo inequivocabilmente shakespeariano, Bush assume più che altro le espressioni di una farsa destinata all’oblio, dopo essere passato per la bocciatura della storia. Ma anche qui, attenzione, Stone non si affida alla comoda boutade del presidente imbecille, troppo poco dotato di materia grigia per meritare il posto che occupa (messaggio che invece passava, sottobanco, in Fahrenheit 9/11 di Michael Moore), perché il suo discorso ne risulterebbe annacquato. Bush è sì un facilone, un uomo che non legge e che non ha la cultura di molti dei suoi avversari – e dell’avversario non citato di ogni presidente USA dal 1963 in poi, ovvero John Fitzgerald Kennedy e la sua ingombrante memoria santificata -, ma non ci viene mai mostrato come uno stupido. Un ruffiano (vedere il modo in cui conquista la stima dell’intera confraternita cui si era affiliato al college), un uomo rozzo, ma non uno stupido: ed è per questo che ci appare ancora più pericoloso, talmente onnipotente che non ci stupiremmo a vederlo giocare con il mappamondo come l’Hitler di chapliniana memoria. Ancora più mefistofelico perché circondato da persone arriviste, squallide e prive della benché minima morale: i ritratti dei vari Dick Chaney, Condoleeza Rice, Karl Rove sono raffigurazioni mostruose di esseri abbietti, come raramente ci era capitato di vedere sullo schermo.

E se è vero che su alcune situazioni Stone avrebbe anche potuto calcare la mano (vedi i rapporti con il mondo esterno: esemplare la telefonata con Jacques Chirac, in questo senso), ammettiamo di aver apprezzato il punto di vista con il quale il cineasta ha voluto affrontare la questione. Ribadendo tra l’altro alcuni punti ricorrenti della sua poetica: i rapporti problematici tra padri e figli (Nato il 4 luglio, Wall Street, U-Turn, ovviamente, ma in senso figurato anche Platoon) e il fascino corruttivo del potere, in ogni sua forma. Il Bush poco più che ventenne ci fa pena prima ancora che ribrezzo, perché si coglie lo sguardo empatico, in fin dei conti comprensivo di Stone; è nel momento in cui i sogni giovanili di diventare una stella del baseball vengono definitivamente messi da parte per sposare l’attività di famiglia ed entrare in politica che cogliamo realmente il senso tragico della pellicola. È nell’assoluto, irreversibile destino di potere di George W. Bush che risiede il male che minerà le fondamenta della pace mondiale. Stone ci fa arrivare a questa conclusione senza sbatterci in faccia una storia che abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene, e sulla nostra stessa pelle, e questo è un pregio non da poco.

ps. Abbiamo trovato decisamente azzeccata, nonché cinicamente ironica, la scelta di inserire sui titoli di coda With God on Our Side di Bob Dylan

Info
Il trailer di W.
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