Tutta la bellezza e il dolore

Tutta la bellezza e il dolore

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Tutta la bellezza e il dolore è il lavoro che Laura Poitras dedica all’acclamata fotografa Nan Goldin, indagando sia il suo ruolo di artista che quello di attivista. Se approfondire l’opera di Goldin significa tornare a un momento cruciale degli Stati Uniti e in particolare di New York, il film di Poitras appare abbastanza scolastico, compilativo e televisivo. In concorso alla Mostra di Venezia, dove ha vinto il Leone d’Oro.

No New York

L’acclamata fotografa Nan Goldin è anche un’attivista: il documentario, oltre a ricordare le sue principali opere, racconta la sua battaglia contro la famiglia Sackler che, con la casa farmaceutica Purdue Pharma, si è arricchita mettendo in commercio un oppioide che ha causato decine di migliaia di morti per overdose negli Stati Uniti. [sinossi]

Tutta la bellezza e il dolore in originale si intitola All the Beauty and the Bloodshed, ossia “tutta la bellezza e lo spargimento di sangue”: è quanto un’estrema sensibilità può percepire nella relazione col mondo, quasi una condanna per chi patisce la travolgente distonia che ci avvolge, tanta meraviglia mista a tanto orrore. Questa sensibilità apparteneva a Barbara Goldin (la sorella maggiore della celeberrima fotografa Nan), morta suicida da ragazza dopo essere stata mandata dalla propria famiglia in un istituto psichiatrico e la stessa capacità di percepire la bellezza e il sangue appartiene senza dubbio a Nancy “Nan” Goldin, la cui vita e le cui opere sono state marchiate da quel terribile lutto, vissuto quando la fotogtafa aveva solo 11 anni. Il rapporto con la sorella e la prosecuzione emotiva di questa incolmabile assenza (che come sanno i poeti è “più acuta presenza”) attraversa gli scatti di Goldin ed è anche il filo rosso più intimo, struggente e vibrante del lavoro realizzato da Laura Poitras (l’autrice di Citizenfour su Edward Snowden che vinse l’Oscar come miglior documentario nel 2015), in Concorso alla Mostra di Venezia. Il film, però, è una specie di “Giano Bifronte”, diviso tra una parte che riguarda la vita e le opere principali dell’artista e un’altra – con cui il film inizia – che tratta della battaglia che Goldin, tramite l’associazione P.A.I.N., porta avanti da anni contro la famiglia Sackler, una delle più ricche degli Usa e del mondo, responsabile di aver inondato (si suppone però con la connivenza delle Autorità regolatorie e delle Istituzioni deputate, cosa di cui il film non parla) il mercato del farmaco di ossicodone, un oppioide prescritto dai medici americani come fosse un normale antidolorifico, ma che ha portato alla dipendenza e alla morte decine o centinaia di migliaia di persone. Nan Goldin iniziò a prenderlo, a quanto pare, per tollerare il forte dolore legato a una tendinite e, come tantissime altre persone, ne è diventata dipendente riuscendo col tempo a disintossicarsi. Il Giano Bifronte si divide dunque tra il percorrere le tappe dell’importante lavoro artistico di Goldin e le riprese di flash mob o performance realizzate con gli attivisti di P.A.I.N., smarrendo unitarietà e dando l’impressione di un lavoro realizzato un po’ “strada facendo”.

Il documentario, di cui Goldin è anche co-produttrice, inizia con una manifestazione tenuta nel 2018 al Metropolitan Museum: la famiglia Sackler, infatti, oltre a essere proprietaria di varie case farmaceutiche, è stata per decenni anche un grande sponsor e una gallina dalle uova d’oro per il mondo dell’arte tanto che al MET aveva una sala – tra le più famose e importanti – a sé intitolata. Come molti ultramilionari (anzi ultramiliardari, in dollari), anche i Sackler donano ai grandi centri della cultura per tenere alta la reputazione del proprio nome: obiettivo di P.A.I.N. è quello, almeno, di far togliere targhe e ringraziamenti alla famiglia da istituzioni come il Louvre, il MET o il Guggenheim e far sì che questi musei rifiutino i soldi dei Sackler, prodotti secondo gli attivisti sfruttando la morte per overdose e la dipendenza di persone per lo più indifese e spesso prive di assistenza sanitaria. Di queste vicende negli Stati Uniti si è parlato molto e basta una rapida ricerca online per capire che lo scandalo legato all’ossicodone è ingente. In mezzo a un film su questa battaglia con tanto di interviste frontali ad altri attivisti, riprese di udienze, performance immortalate a Parigi e a New York, riunioni dell’associazione, si inserisce letteralmente in alternanza (come se la ricetta per il piatto da eseguire indicasse la necessità di fare “un po’ e un po’”) il racconto autobiografico in prima persona di Nan Goldin. Se la parte legata all’attivismo è un documentario di pura testimonianza, televisivo, un reportage giornalistico, l’altro volto di Tutta la bellezza e il dolore ha gioco facile nell’essere assai più interessante ed esteticamente bello, visto che è quasi esclusivamente affidato alle immagini di Goldin in slideshow. Trattandosi di una delle fotografe più impattanti degli ultimi 40 anni, vedere le sue immagini (specie quelle tratte dal monumentale The Ballad of Sexual Dependency o quelle che ritraggono la tragedia dell’Aids nella New York di fine anni ’80) è ovviamente più affascinante. Solo che, appunto, i due “mondi” che il film di Poitras intreccia mal si amalgamano linguisticamente se non per il semplice dato di fatto che rappresentano due momenti differenti della vita di una signora che oggi ha 69 anni e che, probabilmente, con il film voleva soprattutto – legittimamente – rendere nota la battaglia portata avanti con l’associazione che ha fondato. Essendo, appunto, anche co-produttrice del documentario.

Vedendo Tutta la bellezza e il dolore si ha l’impressione che la finalità fosse innanzitutto raccontare l’ignobile faccenda legata all’ossicodone e ai Sackler, cui si è doverosamente aggiunto un altro “pezzo” relativo all’auto-narrazione di Nan Goldin che ci spiega come sono nate alcune foto (come i famosi scatti di lei con gli occhi neri, dopo essere stata pestata dal “suo uomo”, poi lasciato) o ci parla dell’amicizia con alcune persone dell’underground newyorkese (tra cui Cookie Mueller, in realtà di Baltimora come John Waters, il regista con cui ha girato quattro film), dei bar, dei gay club, dell’incredibile e devastata vita nella capitale morale degli States, dell’abuso di droga, della promiscuità, dell’arrivo dell’Aids. Scorrono anche alcuni fotogrammi di lavori di Amos Poe e di Bette Gordon mentre Goldin ricorda una vita veramente selvaggia, al limite, che ha trovato la bellezza nel sangue e che attraverso le fotografie ha generato un diario collettivo dei marginali, un mondo lontano dall’essere del tutto inedito – è la coda lunga della realtà urbana cantata dai Velvet Underground, ovviamente usati da Poitras nella colonna sonora – ma non “guardato” nelle sue viscere più sgradevoli dall’occhio di una macchina fotografica. Questa “mostra” accompagnata dalla voce dell’autrice e dalle sue considerazioni non è però particolarmente ascrivibile a qualche tratto peculiare del film, a qualche intuizione della regista che, invece, filma soprattutto tutto ciò che riguarda la parabola contro i Sackler, il che non è esattamente un lavoro straordinario.

Se la parte più toccante, dove davvero dalle crepe fuoriescono le viscere e l’assurdità dell’esistenza, è quella legata alla famiglia di Goldin con i suoi genitori inadatti ad avere figli ma “destinati” come tutti a farne, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, se il filo rosso resta l’amore per una sorella suicida che deve essere mancata enormemente a Nan, tali forti suggestioni si spengono di fronte a riprese telegiornalistiche, al racconto di una lotta sociale ritratta come un reportage ma lontanissimo dall’essere cinema o provocare emozioni. Il risultato è schizofrenico ed è forse meglio non cercare di connettere coerentemente i “tre tempi” attraversati dal documentario e da Goldin stessa, che in ultima istanza sono: i repressi e sofferti anni ’50 e i primi ’60 (visti tramite la tragica famiglia dell’artista), i caotici e autodistruttivi anni ’70 e ’80 a New York (in cui si sviluppa veramente l’opera della fotografa) e il 2020 circa in cui vediamo una città ripulita e finalmente giusta perché il MET toglie la targa dei Seckler. È questo “il messaggio”? Tralasciando la risposta alla domanda, probabilmente neppure pertinente, Tutta la bellezza e il dolore resta un lavoro abbastanza scolastico, compilativo e televisivo, interrotto solo di tanto in tanto da sussulti e dolore grazie alla voce fuori campo di Goldin che adorna di nuovo sguardo la propria vita e le proprie fotografie.

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