Postcards from the Zoo

Postcards from the Zoo

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In Postcards From the Zoo è tutto bello, accurato, perfettamente ordinato: quel che manca alla regia di Edwin è invece la voglia – o la capacità – di portare avanti il suo discorso fino alle estreme conseguenze. In concorso alla Berlinale 2012.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Lana aveva solo tre anni quando è stata abbandonata dal padre in uno zoo. Cresciuta da un istruttore di giraffe, la ragazza ha conosciuto un solo mondo, quello dello zoo, finché un giorno un affascinante mago le ha rubato il cuore facendole conoscere il vero amore. Ora è pronta ad andarsene insieme all’uomo per le strade di Giacarta e diventare la sua assistente, ma un giorno il mago scompare lasciandola di nuovo sola… [sinossi]

Nella fitta pattuglia di giovani registi composta dalla sessantaduesima edizione della Berlinale per aggiungere carne al concorso ufficiale e rendere agguerrita – almeno sulla carta – la corsa all’Orso d’Oro, si è avuto spesso l’impressione di imbattersi in opere anche accurate da un punto di vista della messa in scena, ma clamorosamente vuote di senso e di significato. Giochi autoreferenziali privi di una vera e propria anima e soprattutto incapaci di lavorare in maniera compiuta sulla scrittura cinematografica. È il caso del pretenzioso Just the Wind dell’ungherese Benedek Fliegauf, del greco Metéora di Spiros Stathoulopoulos, del criptico Aujourd’hui di Alain Gomis: tutti film innamorati della propria estetica al punto tale da sacrificarvi anche qualsiasi tentativo di narrazione. In una pur minima parte rientra a far parte di questa non esaltante schiera anche Postcards from the Zoo, opera seconda del cineasta indonesiano Edwin, noto alle platee internazionali per i numerosi cortometraggi prodotti nel corso degli anni e per il delicato e surreale esordio Blind Pig Who Wants to Fly. Regista dotato di una visionarietà che non gli permette di rapportarsi in maniera pedissequa alla realtà che lo circonda, Edwin tenta con Postcards from the Zoo un ulteriore salto in avanti: il film, girato per più di metà all’interno del giardino zoologico di Jakarta, vorrebbe infatti segnalarsi come metafora ultima sulla natura umana e la sua innata tensione verso l’autoreclusione.

A rendere ancora più evidente il gioco di riflesso tra gli animali in gabbia e i protagonisti del film giungono delle scritte in sovrimpressione, nelle quali il pubblico viene edotto delle varie terminologie tecniche legate alla permanenza degli animali in cattività. Una metafora forse non di primo pelo ma comunque in grado di cogliere con una certa attenzione la crisi dell’uomo nella società moderna, l’irrefrenabile spinta verso una libertà agognata ma assai difficile da poter toccare con mano: è così per Lana, che dopo essersi ritrovata costretta suo malgrado a vivere all’interno del parco, si rinchiude in un centro di massaggi, prigione ancor più soffocante e priva di spiragli; ma è così a conti fatti anche per il resto dell’umanità derelitta che la circonda, a partire dal prestigiatore di cui è innamorata, e che ha il dono della fuga solo ed esclusivamente per via delle sue capacità “magiche”. Se si esclude questo riferimento alla millantata libertà nella quale ritengono di vivere gli esseri umani, Postcards from the Zoo si rivela essere però un film di pura messa in scena. I primi quaranta minuti, con Lana che passa dalla gabbia della tigre alla zona dedicata agli elefanti, sempre con un occhio di riguardo verso la sua amata giraffa, rappresentano un corpo a parte all’interno della complessità dell’opera. Cinema che non racconta nulla – non in senso strettamente narrativo, quantomeno – e vive di pure suggestioni visive: un buco nero affascinante e ipnotico, nel quale tutti gli elementi sembrano destinati a trovare il proprio posto con ordine e precisione. La splendida fotografia di Sidi Saleh, pastosa e contrastata, accompagna le peregrinazioni silenti di Lana e dei suoi amici senzatetto che hanno fatto dello zoo la loro casa: il resto lo fanno il gusto dell’inquadratura di Edwin e la naturale empatia sprigionata dagli animali e dalla loro tenera voglia di comunicazione con gli esseri umani. Impossibile non commuoversi di fronte alle carezze dell’orsetto, o al gioco con la palla della giovane tigre, o ancora di fronte a una giraffa che abbassa il suo lungo collo per prendere il cibo dalle mani di Lana.

Tutto bello, accurato, perfettamente ordinato: quel che manca alla regia di Edwin è invece la voglia – o la capacità – di portare il discorso intrapreso fino alle estreme conseguenze. Non si assiste mai a un reale scarto durante la visione, ma tutto resta sempre uguale a se stesso, ammaliante ma privo di un’anima particolarmente ispirata. Come altri film della giovane generazione visti a Berlino, la sensazione è che si abbia tanta voglia di dirigere film, ma non si sappia il perché e a volte (ma non è il caso di Edwin) il come.  Si rimane dunque prigionieri di uno schema, costretti a ripeterlo ossessivamente. Come gli animali dietro le sbarre di uno zoo.

Info
La scheda dedicata a Postcards From the Zoo sul sito della Berlinale.
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