I ponti di Sarajevo

Film a episodi nato per ricordare il centenario dell’attentato all’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, I ponti di Sarajevo è stato presentato fuori concorso alla 67esima edizione del Festival di Cannes. Tra i tredici registi impegnati, eccellono Jean-Luc Godard, Cristi Puiu e Ursula Meier. In sala dal 25 giugno.

Mi ricordo di Sarajevo…

Attraverso lo sguardo di tredici registi europei, il film esplora quel che Sarajevo rappresenta nella storia europea dell’ultimo secolo. [sinossi]
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Esistevano un tempo i film a episodi, con i loro limiti e i loro piccoli straordinari gioielli (uno su tutti, La ricotta di Pier Paolo Pasolini contenuto in Ro.Go.Pa.G.). Film che risentivano, spesso postivamente, dell’onda dei tempi, di una partecipazione civile, sociale e politica che superava le barriere nazionali (si pensi solo a Lontano dal Vietnam o ad Amore e rabbia) e con cui si arrivava a rendere tangibile una comunione europea di vedute e di punti di vista attraverso le opere di cineasti differenti. Film che superavano gli orizzonti, a volte angusti, della committenza così come di produttori avventurieri tendenti all’ “intrigo internazionale”, figure talvolta losche che però sovente puntavano su registi di tutto rispetto.
Oggi, che dell’Europa transnazionale e politica non è rimasto più nulla se non la grigia ritualità di elezioni quinquennali che preludono sempre più a orizzonti tutt’altro che sereni, spunta fuori per fortuna un film come I ponti di Sarajevo che, presentato come proiezione speciale alla sessantasettesima edizione del Festival di Cannes, ha il merito di riportare alla luce un tentativo di discorso e di riflessione condivisa, europea.
Vi erano stati in realtà di recente due ottimi esempi in tal senso, quali Centro Histórico e Mundo Invisível (entrambi mostrati al Festival di Roma), ma mancava in questi due titoli l’afflato umanistico – e, se vogliamo, anche ingenuamente umanistico – che invece sostanzia l’esperimento di I ponti di Sarajevo, visto che il film invita tredici differenti cineasti a ragionare su quel che è stata, è e sarà la città più devastata dalla guerra nella ex Jugoslavia.

Lo spunto su cui si regge I ponti di Sarajevo è il centesimo anniversario dell’attentato all’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, evento che diede il via alla Prima Guerra Mondiale. Ma, ovviamente, Sarajevo – a partire da quell’episodio – rappresenta ben altro; rappresenta – se vogliamo usare le parole di Godard – l’eccezione alla regola europea, una città in cui convivevano pacificamente diverse etnie, lingue e religioni e che anche per questo è stata distrutta e assaltata con una ferocia senza precedenti.

Jean-Luc Godard, per l’appunto. L’eterno sperimentatore del cinema mondiale, l’unico in grado negli ultimi sessant’anni di rinnovare ogni volta la macchina-cinema, di celebrarne la fine e insieme la rinascita (e basti vedere il suo nuovo film, Adieu au langage, presentato sempre a Cannes 2014), ma anche il solo a perseguire una coerenza invidiabile, capace di immergere il cinema nel mondo e nella società tutta, di fare politicamente del cinema politico. Non è un caso che Godard sia l’unico legame che resta tra quei film a episodi degli anni Sessanta e questo I ponti di Sarajevo. E che ancora una volta, nel suo frammento, si rivolge a noi tutti, all’Europa “della norma” che ha distrutto ogni tipo di eccezione: la città di Sarajevo, così come l’arte e la cultura tou court. Del resto, senza Godard, il progetto di I ponti di Sarajevo (il cui direttore artistico è stato il critico e saggista Jean-Michel Frodon) non avrebbe avuto senso, visto che l’autore delle Histoire(s) du cinéma riflette sulla capitale della Bosnia-Erzegovina sin dal 1993, dai tempi di Je vous salue Sarajevo. In questo suo nuovo lavoro, intitolato evocativamente Les ponts des soupirs, Godard rielabora i suoi frammenti passati per un film che non celebra ancora l’ “addio al linguaggio” del suo film in 3D ma che, anzi, fa del linguaggio lo strumento per scardinare concetti, come quello degli artifici dell’immagine, delle menzogne sulla guerra (che è sempre menzogna dell’immagine), del dramma che è sempre nell’imposizione della norma, della legge e di uno sguardo improntato al senso comune e dunque non contraddittorio.

Era inevitabile, ma sorprendono comunque – di fronte al lavoro di Godard – la piattezza e la mancanza di problematicità mostrata da diversi degli altri registi chiamati a dare un contributo. Primo tra tutti, l’episodio iniziale del film, diretto da Kamen Kalev, che racconta in modo grigio e illustrativo l’attentato all’arciduca d’Austria, una ricostruzione pedissequa (che occhieggia persino al Giulio Cesare di Shakespeare) di cui non si sentiva la necessità. Delude anche Leonardo Di Costanzo con il suo intermezzo in stile La grande guerra di Monicelli, dove il legame con Sarajevo è assente: vi si agitano alcuni soldati semplici mandati alla morte sul fronte e il cui senso del sacrificio guarda semplicemente a noi e alla storia patria. Se inoltre non ci è sembrato arrivasse nulla di buono da altri registi, quali ad esempio Aida Begić o Teresa Villaverde, si salva invece l’altro italiano, Vincenzo Marra, che torna al cinema di finzione a sette anni da L’ora di punta. La sua storia è semplice, ma efficace, e vede per protagonisti due cittadini di Sarajevo, ormai di stanza a Roma, che si interrogano sulla necessità o meno di tornare a casa.

Riescono invece a colpire nel segno, oltre naturalmente al già citato Godard, solo Cristi Puiu e Ursula Meier. Il primo mette in scena una grottesca commedia degli equivoci, tutta girata in piano-sequenza, tra un marito e una moglie rumeni che parlano di storia europea in modo grossolano e divertente. L’immensa vicenda del Vecchio Continente vista da una prospettiva minuscola e fallace: è una lezione, quella di Puiu, che sdrammatizza l’asprezza dei vari conflitti vissuti nel Novecento, ma che allo stesso tempo, con il sorriso sulle labbra, dimostra quanto sia ancora lontana la strada per arrivare alla conquista di una Storia europea condivisa.
Se Godard ci aiuta a ragionare usando gli strumenti primari del cinema (montaggio e contrapposizione di immagini, gioco linguistico verbale e visivo, accostamento e conflitto di concetti e sguardi), se Puiu invece sceglie la strada dell’understament ironico, Ursula Meier opta per un racconto drammatico che assurge immediatamente a grandezze epiche.
L’autrice di Home e di Sister costruisce la sua vicenda a partire da una contrapposizione immediata di luoghi (elemento, del resto, caratterizzante della sua pur breve filmografia): da un lato un campo di calcio, dall’altro un cimitero. E un pallone che supera la rete e finisce nel cimitero…Il bambino che va a cercare la palla si incontra con una signora. La donna ad un certo punto gli dice: “Il tuo pallone è laggiù, tra la tomba di mia madre e quella di mia sorella”. L’indicazione della donna, detta con una sorta di afona oggettività, spalanca il modo del bambino (e quello dello spettatore) di fronte al dramma di una guerra, dimenticata, rimossa, eppure presente e opprimente con quella sua lunghissima fila di tombe.
Romanzo di formazione che si volge nel giro di pochi minuti, l’episodio diretto da Ursula Meier – l’ultimo dei tredici – riesce con un linguaggio immediato a parlare a tutti. Si tratta – se vogliamo – di un esempio eccellente di cinema popolare, un piccolo grande romanzo su Sarajevo e sul dramma di una città che continua ad essere raccontato troppo poco.

Info
La pagina di I ponti di Sarajevo sul sito del Festival di Cannes.
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