Difret – Il coraggio per cambiare

Difret – Il coraggio per cambiare

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Con Difret l’esordiente etiope Zeresenay Berhane Mehari dirige un’opera di impegno civile, modellata sui classici statunitensi di qualche decennio fa, che affianca al vigore divulgativo un occhio sempre attento al ritmo e alla fruibilità.

Tenacia e trasformazione tra due mondi

In un villaggio nei dintorni di Addis Abeba, la quattordicenne Hirut viene rapita e violentata dall’uomo che ha deciso di prenderla in moglie. La ragazzina, in un tentativo di fuga, uccide il suo rapitore, e viene così incriminata: a difenderla, l’avvocato Meaza Ashenafi dell’associazione ANDENET, che assiste donne in difficoltà. Ma nel villaggio di Hirut, in cui la pratica del rapimento a scopo di matrimonio è molto comune, tutti sono contro di lei… [sinossi]

Dopo il premio del pubblico al Sundance, e la presentazione nella sezione Panorama della scorsa Berlinale, l’esordio nel lungometraggio dell’etiope Zeresenay Berhane Mehari arriva nelle nostre sale. Lo fa col traino del nome di Angelina Jolie, che ha deciso di entrare nel progetto, come produttrice esecutiva, quando il film era in fase di post-produzione; e con una serie di altri sponsor eccellenti, che ne hanno lodato il valore divulgativo, tra i quali va ricordato il segretario di stato americano, John Kerry, e l’Alto Commissario dell’ONU per i diritti umani, Navy Pillay. Mehari, etiope di nazionalità ma dalla formazione cinematografica statunitense, ha scelto per questo esordio un evento e una data emblematici: Difret, infatti, si ispira a un fatto di cronaca avvenuto nel 1996, un accadimento che, con la sua risonanza mediatica, mise in crisi la pratica della Telefa, il rapimento a scopo di matrimonio tradizionalmente praticato in molte zone dell’Etiopia. Il 1996 è inoltre l’anno in cui lo stesso regista si trasferì negli USA per studiare cinema, lasciando un paese che, in quasi un ventennio, si sarebbe trasformato in profondità; nelle strutture giuridiche come in quelle sociali.

Guardando il film di Mehari, in effetti, si colgono in modo abbastanza chiaro i connotati della formazione del regista, l’influenza dei drammi processuali americani e delle loro modalità rappresentative, con una progressione drammatica che tiene alta la tensione, seguendo la battaglia sempre più solitaria della donna avvocato protagonista. La messa in scena, nella sua essenzialità, cattura l’occhio con stile e sicurezza; a partire dalla secca sequenza del rapimento e dell’omicidio, passando per le peregrinazioni della giovane protagonista, accompagnata dal caparbio avvocato, tra posti di polizia, abitazioni e orfanotrofi, per terminare nelle concitate fasi del processo. A colpire, nell’estetica del film, è anche l’uso del 35mm, con la profondità di campo che il regista conferisce agli esterni; in particolare, funziona il contrasto (cuore tematico del film) tra campagna e città, che diviene nella storia contrasto tra due visioni del mondo antitetiche. Un uso, in chiave espressiva, della scenografia, che certo dà forza al contesto sociale e umano rappresentato.
Al di là del suo incedere concitato, in un racconto che segue il ritmo convulso di un caso che avrebbe iniziato a trasformare (in modo allora inimmaginabile) il volto della giustizia etiope, di Difret colpisce il motivo centrale: due donne, di generazioni diverse, unite dalla resistenza a una giurisdizione di fatto, parallela a quella ufficiale, che nel paese esercita ancora la sua forza normativa. Si legge, in controluce, il motivo della tensione tra la società tribale, con le sue regole non scritte ma da sempre accettate e condivise, e la modernità che avanza, figlia di una società urbanizzata e sempre più modellata sui connotati occidentali. Il film coglie, nel periodo rappresentato, il momento di una precaria convivenza tra questi due modelli socio-culturali; convivenza tanto fragile da essere messa definitivamente in crisi da un caso come quello di Hirut.

Sul volto della giovane protagonista (l’ottima esordiente Tizita Hagere) si coglie tutto il peso di questa trasformazione in atto, in una dialettica irrisolta tutta giocata sul corpo (e nell’anima) di Hirut. La regia coglie abilmente, in particolare, il peso di un’appartenenza scissa, lo status di apolide de facto che caratterizza la ragazza: impossibilitata a tornare al suo villaggio, dove il consiglio tribale ne ha decretato l’esilio (e, in fondo, confusamente desiderosa di allontanarsene già da prima del rapimento); ma aliena nella metropoli, che la frastorna con luci, rumori e caos, e la spinge a una fuga fatalmente priva di meta. Un personaggio senza radici che diviene emblema di un paese in trasformazione, più problematico e interessante di quello (maggiormente schematico, dalla scrittura più classica) dell’avvocato che la guida, una comunque efficace Meron Getnet.
La sceneggiatura rivela comunque un ottimo equilibrio, nell’evitare uno sguardo giudicante o manicheo, finanche sui membri di quel consiglio tribale che perpetuano pratiche e norme millenarie; pratiche che hanno comunque contribuito a costruire, e cementare, un senso di comunità impossibile da rintracciare nel contesto urbano. Nei rituali della vita del villaggio, capace di condannare a morte e uccidere, ma incapace di lasciar andare via un ospite (sia pure un “nemico”) senza offrirgli del cibo, si coglie anche la sottile nostalgia per un universo al tramonto, contrapposto alla burocrazia un po’ ottusa (e più cinica) delle procure e delle aule di tribunale.
Proprio per questo equilibrio nel racconto, e per una fruibilità, figlia della formazione del regista, che lo accosta a certo cinema statunitense di impegno civile, Difret si fa anche perdonare qualche scelta di montaggio non proprio ottimale (ne è un esempio la prima fuga della protagonista), risultando opera ricca di vigore e sincera. Una genuinità capace anche di culminare in un finale intelligente, che al coinvolgimento emotivo non dimentica di affiancare il necessario elemento della credibilità.

Info
Difret, il trailer.
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