Crazy Mama

Crazy Mama

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Opera seconda di Jonathan Demme, Crazy Mama vive della libertà espressiva anni Settanta, in un fuoco di fila di dissacrazioni contro i pilastri della cultura americana. Prodotto da Julie Corman, moglie di Roger, con protagonista Cloris Leachman. In dvd per Pulp e CG.

Long Beach, 1958. Melba Stokes rischia di vedersi soffiare dai creditori il negozio di parrucchiera di sua madre Sheba. Le due donne si danno alla fuga insieme a Cheryl, la figlia di Melba, e a poco a poco raccolgono intorno a sé un improvvisato gruppo di rapinatori. L’obiettivo è raggiungere Jerusalem nell’Arkansas, luogo natio delle due donne dove anni addietro fu loro sottratto un terreno… [sinossi]

Mamme pazze. Non una, ma due. Ma sono molte di più in realtà le donne incontrollabili nel turbinio del cinema americano anni Settanta, a tutti i livelli produttivi, da Hollywood all’exploitation. All’inizio del decennio la factory di Roger Corman si arricchisce di un nuovo elemento: Julie Halloran, che va a nozze col noto produttore e si dedica a sua volta a progetti cinematografici per conto della New World Pictures, fondata dal marito. Scorrendo rapidamente la filmografia produttiva di Julie Corman (in breve tempo la signora inizierà a farsi accreditare col cognome del consorte), è da rilevare innanzitutto una predilezione per i soggetti a tematica femminile, sia pure ricollocati nel consueto contesto di low budget e di sfruttamento massivo del cinema “alto”. Crazy Mama (1975) nasce a sua volta come prodotto derivativo di un altro film della factory cormaniana, Big Bad Mama dell’anno precedente, che per la regia di Steve Carver aveva visto Angie Dickinson al centro di una vicenda di rapine e sparatorie in chiave “new feminine”.
Crazy Mama non condivide in realtà alcunché con l’opera precedente; nessun diretto legame diegetico, ma soltanto una comunanza nella centralità di figure femminili dal carattere vulcanico e una certa similarità negli snodi principali del racconto. È tuttavia da ricordare che siamo nel contesto del larghissimo consumo, in cui anche soltanto il vago richiamo a un film precedente di buona notorietà è mirato a catalizzare l’attenzione del pubblico.

Inizialmente era prevista in sede di regia l’autrice d’avanguardia Shirley Clarke, ma all’ultimo fu sostituita da un trentunenne che già si era fatto notare alla factory di Corman: Jonathan Demme, raccolto in corsa per quella che sarebbe stata la sua opera seconda dopo Femmine in gabbia (1974), ancora ben lontano dai fasti internazionali di Il silenzio degli innocenti (1991) e Philadelphia (1993). A segnalare la fertilità e l’interscambio tra forme di cinema a diverso budget, troviamo nel ruolo principale nientemenoché Cloris Leachman, una delle attrici americane più apprezzate lungo tutti gli anni Settanta, sia al cinema che in tv, premio Oscar per la splendida prova in L’ultimo spettacolo (1971) di Peter Bogdanovich e freschissima di nitriti di cavalli per l’austera Frau Blücher interpretata in Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks.
Secondo una prassi ben più consolidata, nei ruoli secondari si fanno posto invece glorie più o meno vecchie, disposte a concedersi alle scatenate follie di un cinema meno schiacciato dal controllo delle majors. Stuart Whitman, caratterista di lungo corso che a suo tempo ebbe pure una candidatura all’Oscar per Il marchio (1961), e Ann Sothern, volto noto fin dagli anni Trenta, si affiancano a uno stuolo di giovani attori in ruoli di contorno, in cui fa capolino pure il Donny Most che proprio in quegli anni si affacciava a una grande notorietà televisiva grazie al personaggio di Ralph Malph in Happy Days.
Tutti chiamati a raccolta per un film che mira scopertamente al pubblico di profondità e agli ultimi residui dei declinanti drive-in, di sicuro non alla distribuzione nelle prime visioni delle metropoli. Ma intanto, come spesso accadeva per il cinema americano concepito a sfruttamento massivo, Demme, i coniugi Corman e molti degli autori che collaboravano con loro potevano permettersi libertà espressive inconsuete, benché la Hollywood riformata degli anni Settanta avesse fatto sua la lezione del cinema indipendente e si fosse spinta verso lidi espressivi impensabili per l’industria fino a pochi anni prima.

La vicenda è semplice e tutta finalizzata a una messinscena d’azione che si rinnova di sequenza in sequenza. Melba Stokes, donna vistosa e di liberi costumi, è sommersa dai debiti e rischia di perdere il negozio di parrucchiera della madre Sheba, altrettanto spavalda. In fuga dai creditori, le due donne si lanciano in un’avventura on-the-road per andare a rivendicare un loro vecchio terreno di proprietà. Percorrendo gli Stati Uniti per centinaia di chilometri, le donne sono accompagnate dalla giovane figlia di Melba e dai suoi due fidanzati, mentre per Melba c’è tempo di sposarsi, fare rapine, fingere il sequestro dell’uomo che per impalmarla si è reso bigamo e quant’altro.
Crazy Mama appare innanzitutto una contaminazione tra generi, o meglio un vero e proprio superamento dei generi. Vige infatti un approccio al racconto libero e desideroso di farsi beffe di sovrastrutture. Spesso la parodia sui valori fondanti della cultura americana è palese e conclamata, ma ciò prende forma tramite un’idea di narrazione che si affida alle risorse della digressione. Anzi, l’intero film si profila come una collana di variazioni sul tema delle tre generazioni femminili determinate al crimine pur di vendicare le proprie origini spazzate via dalla violenza.
Facendosi forte della libertà espressiva che dominava il low-budget cormaniano, Demme aderisce in tutto al principio del rovesciamento, attaccando a testa bassa i fondamenti culturali dell’American Way of Life.

Innanzitutto il film sembra mettere in burla il filone-nostalgia emerso nel decennio intorno al mito degli anni Cinquanta, vulgati come un’epoca di ingenuità e purezza non ancora intaccata dalla disillusione; i Fifties raccontati da Demme si configurano in realtà come il luogo di deflagrazione di tutto un rimosso collettivo, a cominciare dai continui riferimenti al terrore sovietico e dalla violenza perpetrata contro l’antica America rurale dall’emergente omologazione. Tramite gli strumenti della burla e del cinismo Demme rovescia addosso alle sorridenti stupiderie anni Cinquanta l’emersione di nuove morali, a cui le tre donne protagoniste aderiscono con spontaneo entusiasmo. La giovane Cheryl, figlia di Melba, non sa scegliere tra due fidanzati, che messi insieme compongono un uomo perfetto: sensibile il primo, protettivo il secondo. La ragazza ha anche dei dubbi sulla paternità del figlio che sta aspettando, ma tutto ciò è riassorbito senza troppe scosse in una nuova idea di vita comunitaria. Intorno a Melba si aggrega a poco a poco un’eccentrica realtà sociale in cui si assommano le rivendicazioni femminili di più generazioni, con l’annessione anche di una vecchietta raccolta in un casinò che si rivela la più determinata allo scopo. È l’emergere in realtà di una nuova visione del mondo, comune a molto cinema della controcultura americana, che spesso non ha disdegnato gli strumenti della commedia o della parodia per dissacrare convenzioni e dare voce alla contestazione.
Le stoccate all’America giungono una dopo l’altra in un fuoco di fila di sapide battute (le invocazioni di Sheba e della vecchietta Bertha alle prese con la slot machine, che si raccomandano a Dio, alla madrepatria…), mentre qua e là il film perde quota quando si affida alle macchiette più scontate (la moglie del sindaco bellimbusto che va a nozze bigame con Melba). Intanto c’è posto per tutto, dagli sberleffi su Alamo e Pearl Harbor alla bomba atomica, dalla tv del dolore ai cartelloni pubblicitari, fino alla scanzonata Bertha che intona “God Bless America” mentre va a ritirare un riscatto.
Ma resta ben percepibile l’entusiasmo di un cinema realizzato in grande libertà, che gioca scopertamente non soltanto con i pilastri culturali di tutto un paese, ma anche con gli strumenti espressivi che hanno dato voce a quei pilastri. Più di tutto Crazy Mama evoca infatti la macrostruttura di un western on-the-road, in cui come spesso accadeva nel cinema dei cowboy la posta in gioco è un pezzo di terra da (ri)conquistare. Genere americano per eccellenza, il western è stato spesso il teatro prediletto per lasciar risuonare i fondamenti di tutta una cultura, dal mito della frontiera all’eroe solitario e individualista. Demme eredita lo scheletro del western per sovvertirne, colpo su colpo, quegli stessi moduli di pensiero ideologico che spesso lo innervavano, affidandosi a uno schietto spirito per lo scherzo goliardico con parentesi sanamente fracassone. Una vena anarcoide che pur in un contesto generalmente scanzonato non si nasconde dietro a un dito, e lascia spazio alla vera violenza di un sistema sociale che spietatamente vorrebbe richiudersi su se stesso (l’anziana Bertha viene uccisa senza troppi complimenti).

Sarebbe probabilmente forzare la mano se volessimo riconoscere in Crazy Mama riflessi della personalità autoriale che Demme paleserà in seguito. Sul piano stilistico il film mostra infatti vaghe tracce di anti-grammatica piuttosto in linea con tutta una tendenza americana di quegli anni. Ma in una generale prevalenza d’inquadrature a macchina fissa in rapido montaggio si aprono talvolta squarci inconsueti, che in effetti potrebbero preannunciare il gusto barocco del futuro autore, rintracciabile soprattutto nella sequenza della gara di moto, punteggiata di brevi frame in prospettiva esasperata.
Altrettanto evidente è il gusto cinefilo di Demme, che su un tronco narrativo da western di strada innesta spesso reminiscenze di antico cinema. Si vedano in tal senso lo sparo di Melba verso il pubblico, che fa il verso a The Great Train Robbery (1903) di Edwin S. Porter, e il finale da comica con i poliziotti pasticcioni, discendenti dei Keystone Cops al soldo di Mack Sennett. Si tratta di una cinefilia mai fine a se stessa, che ben si lega a un discorso sottotraccia sull’America perduta, quella da riconquistare al prezzo anche del crimine. Una terra promessa cancellata dall’omologazione (non a caso la cittadina dell’Arkansas dove le donne intendono rivendicare la propria terra si chiama Jerusalem).
Mai distribuito nelle sale italiane, Crazy Mama è riproposto in dvd da Pulp Video e CG in lingua originale con sottotitoli. Tuttavia il master appare piuttosto rovinato, con difetti evidenti nella fotografia. Nelle inquadrature troppo luminose, ai bordi i colori tendono a un biancastro sfocato, mentre all’opposto l’immagine rasenta talvolta i limiti dell’intelligibilità nei brani al buio o nella semioscurità. Un peccato, perché si tratta comunque di un recupero necessario per avere un quadro d’insieme dell’opera di Demme e per riscoprirne gli albori più scapigliati, quando si divertiva ad acconciare donne scalmanate in pettinature e abbigliamenti non lontani da John Waters.

Curiosità: al montaggio è accreditato Lewis Teague, altro talento della scuderia di Roger Corman che in seguito realizzerà tra gli altri Cujo (1983), L’occhio del gatto (1985) e Il gioiello del Nilo (1985).

Extra
trailer originale.

Info
La scheda di Crazy Mama sul sito della CG Entertainment.

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