Il sentiero della felicità

Il sentiero della felicità

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Il sentiero della felicità racconta un percorso umano e spirituale meritevole di approfondimento, peccando però nel tentativo di tradurne letteralmente le implicazioni nella forma-cinema.

Spirito ed (est)etica

Nel 1920, il filosofo e mistico indiano Paramahansa Yogananda giunge a Boston. Qui, fonda la Self-Realization Felloship, organizzazione tesa a far conoscere in Occidente i principi del Kriya Yoga, e a propagandare una nuova visione spirituale che coniuga l’apertura a tutte le religioni coi principi della scienza. [sinossi]

Ha due facce, il documentario di Paola Di Florio e Lisa Leeman, esplorazione per immagini della vita di uno dei più interessanti mistici contemporanei. Da un lato, il racconto di un percorso umano, spirituale e “politico” (nel senso più ampio del termine) dalle tante sfaccettature, perfettamente calato nella realtà del tempo in cui si espresse, immerso in una materialità storica tale da far risaltare, in modi imprevedibili e fecondi, il suo messaggio. Dall’altro, il tentativo del film di aderire direttamente alla caratteristiche del messaggio stesso, adagiandovisi e cercando di tradurre letteralmente in immagini i suoi contorni. In questa compresenza, fatta da un lato di materiale d’archivio, interviste e testimonianze (attuali e d’epoca), dall’altro di sequenze ricostruite condite da assonanze estetiche ed emotive, sta la sostanza di Il sentiero della felicità. Una dialettica imperfetta, che vede il suo lato più concreto, quello del resoconto documentaristico nel senso più stretto, rendere decisamente con più efficacia la sostanza di un’esistenza, e di un messaggio, imbevuti di spiritualità.

È un film denso, spesso, a tratti sovraccarico, quello confezionato dalle due documentariste. Dovendo sintetizzare in circa un’ora e mezza una quantità di materiale ragguardevole, tale da impattare con molteplici aspetti dei due mondi al centro del film (l’India e l’Occidente, colti in un periodo chiave della loro storia), le due registe scelgono la strada dell’immagine forte, espressiva, lirica. Scelgono, soprattutto, un ritmo tipicamente cinematografico, sia nel susseguirsi delle testimonianze, sia nella fattura e nel “passo” del montaggio. Una scelta che può spiazzare, e persino irritare, gli spettatori avvezzi a un modello di documentario più rigoroso, esteticamente più coerente con se stesso e meno infarcito di sovrastrutture; ma, in fondo, in linea con un oggetto di studio per sua natura sfuggente, restio a un racconto per immagini piano e rigidamente incasellato.

Il problema di questo Il sentiero della felicità sta probabilmente nell’aver voluto sbilanciare troppo il film sul piano delle metafore filmate, della visualizzazione diretta delle suggestioni, dell’etica espressa dal suo oggetto che punta a farsi estetica cinematografica. L’adesione e la simpatia, evidenti, delle due registe per la personalità che narrano, finiscono per divenire tentativo di traduzione diretta del suo messaggio nel medium del cinema. Scelta problematica e (in questo caso) decisamente poco funzionale. Le aperture oniriche di cui il film è disseminato, le tante sequenze ricostruite, il formalismo esibito, tutto teso a dare ragione visiva (e di immediata lettura) di un messaggio complesso e multiforme, provocano a tratti un senso di fastidio. La giustapposizione tra testimonianze e immagini (rese queste ultime in un digitale non sempre ben amalgamato al materiale di repertorio) sconfina a tratti nel didascalismo, appesantendo il tono del documentario.

Paradossalmente, come si diceva in apertura, la personalità e la sostanza del messaggio di Yoganada, la sua complessa costruzione filosofica, emergono con più limpidezza nelle parti del film più improntante al resoconto d’epoca. Lo spettatore digiuno di un modello di spiritualità così lontano dal suo orizzonte di riferimento (ma anche dalle semplificazioni mediatiche che negli anni ne sono state fornite) troverà, probabilmente, più curiosità in quei frammenti in cui vediamo la sfuggente figura del mistico impattare con una società sospesa tra la vertigine del benessere agognato (quello dell’immediato, primo dopoguerra) e il terrore di una nuova tragedia imminente.

Tra suggestioni sfiorate e non approfondite (l’interessante analogia, abbozzata quando il protagonista si stabilisce vicino alla Mecca del Cinema, tra una realtà che è schermo illusorio, e la consistenza dell’immagine cinematografica) e conflitti vecchi e nuovi (quelli razziali del Sud degli Stati Uniti, quello che in India porterà all’indipendenza del paese), intuiamo solo la portata di un messaggio, e di un’esistenza, praticamente unici. Abbastanza, probabilmente, per stimolare la ricerca e l’approfondimento da parte dello spettatore più ricettivo, ma non per trasmettere in misura sufficiente contorni e implicazioni di una storia personale che si è fatta collettiva.

Info
Il trailer di Il sentiero della felicità su Youtube.
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