Vexille

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Non è certo sull’originalità della trama che si deve andare a ricercare il punto di forza di un film come Vexille: tutto rientra nella prassi del cinema di fantascienza apocalittica.

Gli androidi sognano ancora

Prima di immergerci nella lettura critica di Vexille di Fumihiko Sori, ci permettiamo una digressione solo apparentemente pretestuosa: abbiamo accolto con estremo piacere la scelta, operata da Frédéric Maire e dal suo entourage, di far aprire l’edizione numero 60 del Festival Internazionale del Film di Locarno a un film d’animazione giapponese, girato interamente in digitale (e per di più in anteprima mondiale). Questo non solo per l’attenzione che abbiamo sempre rivolto al mondo degli anime, né per la mai sottaciuta ammirazione che proviamo verso il cinema prodotto nell’Estremo Oriente, ma perché agire nella direzione verso cui si è mossa l’organizzazione del festival significa avere compreso l’urgenza di una apertura ai “nuovi” modelli di espressione, primo passo indispensabile per non trovarsi impreparati nei confronti del cinema del “futuro” (nuovo e futuro, due termini che torneranno in maniera preponderante nel corso della disamina e che ci è sembrato doveroso, anche in virtù del loro grado di fraintendimento, virgolettare).

Ci eravamo avvicinati a Vexille con una serie di aspettative tutt’altro che modeste e, anche se ci siamo trovati costretti durante la visione a ricalibrare con maggior attenzione le attese, abbiamo la certezza che opere di questo tipo rappresentino la vitalità di un movimento, quello del cinema d’animazione pensato interamente al digitale, che meriterebbe un riscontro maggiore da parte della critica (a dirla tutta basterebbe che quest’ultima mostrasse meno faciloneria nell’approcciarsi a una branca dell’arte che dimostra – almeno nella stragrande maggioranza dei casi – di conoscere solo in superficie).

In un 2077 che nessuno di noi vorrebbe mai avere la sventura di vivere, il Giappone è uno stato completamente isolato dal resto del mondo; una scelta di tale gravità fu presa dieci anni prima, in seguito a una serie di sanzioni da parte delle Nazioni Unite causate dalla sperimentazione su robot ad alta tecnologia che il paese del Sol Levante aveva intrapreso con estrema foga.
Per scongiurare una ripercussione a livello mondiale, l’unità speciale statunitense S.W.O.R.D. è spedita in tutta segretezza in Giappone, per un’operazione di spionaggio che permetta di scoprire quel che si nasconde dietro la cortina di protezione alzata dal governo nipponico. A capitanare l’operazione è la bella Vexille, che avrà modo di fare una serie di scoperte a dir poco sconvolgenti…

Diciamoci la verità, non è certo sull’originalità della trama che si deve andare a ricercare il punto di forza di un film come Vexille: tutto rientra nella prassi del cinema di fantascienza apocalittica che è sempre stata tenuta in estrema considerazione tanto in letteratura quanto al cinema. Al di là di capisaldi del genere (a chi, terminata la lettura del plot, non sono tornati alla mente i replicanti che sognano pecore elettriche di dickiana memoria, resi celebri da Ridley Scott in Blade Runner, o lo stato di grave crisi mondiale vissuto dal Giappone post-atomico nell’insuperabile Akira di Katsuhiro Ōtomo?). Questo senza dimenticare come l’amaro futuro dell’umanità sia uno dei tratti distintivi dell’arte giapponese, popolo che è ancora – e forse sarà per sempre, purtroppo – “figlio della bomba”: che si tratti dei grandi maestri dell’immediato dopoguerra o dell’anarcoide esplosione cyberpunk che raggiunse l’apice (oltre al già citato must di Ōtomo) nell’uomo/macchina dei due Tetsuo di Shinya Tsukamoto, è possibile tracciare un fil rouge che attraversa la storia degli ultimi sessant’anni di cinema giapponese e che si dimostri estremamente coerente.

È giusto notare come sia stato soprattutto il cinema d’animazione a interrogarsi sulla ciclicità della storia e sulle scorie che la memoria porta con sé: un vero e proprio exploit di fantascienza più o meno mascherata dalla coperta della contemporaneità (o il contrario, se preferite) che ha visto in prima linea intere generazioni di maestri degli anime, da Miyazaki a Takahata passando per Ōtomo, Oshii, Kon, Masaaki fino ad approdare al Neon Genesis Evangelion di Hideaki Anno, Origin – Spirits of the Past di Keiichi Sugiyama e, in ultima istanza, a Final Fantasy di Hironobu Sakaguchi e Moto Sakakibara. Che è l’opera cinematografica a cui viene più facile apparentare Vexille, per un’ovvia ma inevitabile riflessione sulla tecnica utilizzata: pur essendo da sempre scettici sull’abuso che spesso si fa dell’animazione digitale (soprattutto in quel 3D che è diventato negli ultimi anni lo specchio per le allodole per il pubblico di bocca buona, arma atta a mascherare uno spaventoso buco di idee nell’animazione occidentale più direttamente mainstream), è indubbio che l’opera di sperimentazione che Final Fantasy portò con sé sei anni fa abbia segnato un passo indispensabile per l’evoluzione – o meglio, il tentativo di essa – del cinema di animazione tout court. Tralasciamo dunque per il momento le già preannunciate pecche di originalità della sceneggiatura e spostiamo lo sguardo sulla tecnica studiata per il film dal team messo in piedi dalla Oxybot: rispetto al film di Sakaguchi e Sakakibara, Vexille mostra dei passi avanti a dir poco sconvolgenti. L’azione è estremamente fluida, e se gli effetti speciali e le scene più puramente action sono state semplicemente limate, visto che già rappresentavano la “sicurezza” del genere, è sull’essere umano che Sori e il suo team hanno ottenuto i risultati migliori: espressione facciale, movimento del corpo, capacità di inserimento nell’ambiente circostante, da sempre le tare del cinema pensato in digitale, in Vexille raggiungono vette francamente insospettabili, prospettando un futuro assai più roseo di quanto fosse preventivabile solo un anno fa.

E se, come abbiamo già scritto in tutte le salse, la sceneggiatura non è certo il fiore all’occhiello dell’operazione, è vero che rispetto all’assoluta mancanza di qualsivoglia idea che si poteva respirare – tanto per fare un nome – in Final Fantasy VII – Advent Children di Tetsuya Nomura, Vexille punta quantomeno in alto: il suo futuro sarà anche mutuato su quello architettato in anni e anni di cinema fantapolitica, ma alcune soluzioni (la Tokyo robotizzata in cui gli ex-umani tentano comunque di preservare la loro memoria culturale e popolare e la lotta portata avanti pur con la certezza della sconfitta su tutte) non sono certo da buttar via. E anche il tentativo di una narrazione adulta che evita macchiette (si prendano la dolcezza e la mestizia con le quali è tratteggiato il personaggio del bambino), intermezzi ironici e corre con sguardo amaro verso la distruzione finale – quell’inseguimento zoppicante sulla cima del grattacielo – è da applaudire.Peccato per la scelta, francamente incomprensibile, di addossare l’intera colpa del male che avvelena e minaccia la terra sulle spalle di una sola persona, e per il manicheismo con cui sono trattati gli statunitensi (tutti perfetti e tutti buoni? Mmm…), perché senza queste pecche ci saremmo trovati di fronte a uno dei migliori prodotti di animazione dell’anno – per quanto ci riguarda la vetta è ancora nelle mani dello stupefacente The Girl Who Leapt Through Time di Mamoru Hosoda. Resta la piacevole sensazione che anche il cinema in computer grafica si stia iniziando a muovere nella decisione giusta, imparando che la tecnica non si deve permettere mai il lusso di bastare a se stessa.
Il futuro (speriamo meno angoscioso di quello mostrato nel film) ci dirà se la nostra impressione si dimostrerà azzeccata.

Info
Il sito ufficiale di Vexille.
Il trailer di Vexille.
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