New Orleans mon amour

New Orleans mon amour

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In New Orleans mon amour il regista statunitense Michael Almereyda sceglie la città sventrata dall’uragano Katrina come sfondo di una storia d’amore inesprimibile, rimossa, abbandonata ai flutti. A Torino 2008.

Uragano di passioni

Sullo sfondo del dopo Katrina a New Orleans, il dottor Jekyll, un chirurgo dall’intensa vita mondana, sta cercando di riportare la sua vita alla normalità e risposare la ex moglie. Le cose cominciano ad andare storte quando rincontra Hyde, una donna molto più giovane che in passato aveva fatto naufragare il suo matrimonio. Hyde è tornata in città e collabora con un’organizzazione di soccorso che lavora alla ricostruzione della città. I due non riescono a star lontani l’uno dall’altra e questo li porterà alla rovina. [sinossi]

Cosa possa aver significato per una città come New Orleans, alieno esempio di urbanizzazione nel profondo sud degli Stati Uniti, un evento climatico come l’uragano Katrina, disastro naturale tra i più cruenti registrati nei nostri anni nonché perfetto paradigma di mal governo da parte del potere politico, probabilmente è qualcosa di estremamente difficile a descriversi. Ci sono riusciti, con un lavoro documentario decisamente meritevole Spike Lee e Jonathan Demme, ma ancora nessuno aveva avuto il coraggio di mettere in scena la città simbolo del jazz (notevole la scelta del brano delle Boswell Sisters in colonna sonora), devastata, in un’opera di finzione. A colmare questo buco ci ha pensato Michael Almereyda, alfiere del cinema indipendente a stelle e strisce, figura che è realmente arduo riuscire a restringere nelle strette maglie della codifica in generi o stili narrativi: passato dagli esordi (Twister, Another Girl Another Planet) all’horror vampiresco visionario e sui generis Nadja, prodotto da sua maestà David Lynch, Almereyda ha poi portato a termine un’affascinante e sottostimata trasposizione contemporanea di Shakespeare (Hamlet 2000), ultima opera ad aver ricevuto una seppur minima attenzione da parte della critica italiana. In realtà Almereyda ha continuato imperterrito per la sua strada, dirigendo almeno due opere che sarebbe seriamente il caso di ripescare dall’oblio in cui sono sprofondate (parliamo di This So-Called Disaster e William Egglestone in the Real World).

Oblio con il quale ci auguriamo non debba mai fare i conti New Orleans mon amour, straordinaria storia d’amore e d’ossessione sullo sfondo di una città morente, disperatamente aggrappata a una memoria gloriosa che non riesce però a tenere in piedi le case, a rendere percorribili le strade. La New Orleans inquadrata da Almereyda è un non-luogo, entità a sé stante che non saremmo neanche in grado di collocare con precisione geograficamente se non fosse per quella parlata, per i riferimenti alla tragedia di Katrina che ogni tanto fanno capolino dalle conversazioni, dalle voci della radio, dalla prova tangibile lasciata sulle abitazioni. È in questo universo in disfacimento, ancora non completamente consapevole del suo destino ineluttabile di morte e desolazione, che si agitano gli umori e le passioni del dottor Jekyll, medico chirurgo di indubbia fama, e della sua amante Hyde, più giovane di lui. Il riferimento al celebre romanzo di Louis Stevenson non è ovviamente casuale: i due innamorati sono infatti l’uno l’immagine bestiale e crudele dell’altro. Attraversano i sensi di colpa del loro rapporto – entrambi hanno già un partner – in maniera addirittura famelica, come se l’orrore della tragedia che la città ha dovuto subire li avesse resi impermeabili all’esterno (e qui è possibile anche cogliere il sottile senso cinefilo di quel titolo così spudoratamente resnaisiano); in questa ricerca fenomenica è sbalorditiva la capacità di Almereyda di riprendere New Orleans senza alcun filtro apparente.

La videocamera – il film è girato in HDV – non ha bisogno di alcun trucco nell’inquadrare le rovine di quello che fu uno dei centri culturali più fiorenti dell’intero bacino del Mississippi, e la purezza a suo modo quasi bressoniana con cui Almereyda la utilizza rende ancora più straziante una messa in scena di per sé già fortemente partecipata. Allo stesso modo non c’è morbosità nel mostrare una coppia perduta prima ancora di aver compreso l’importanza del ritrovarsi (quando li incrociamo all’inizio sono sei anni che i due non si vedono), destinata a una deriva illusoria e priva di qualsiasi meta: Katrina non è la causa delle loro azioni, e non ne sarà neanche la soluzione. È solo l’immobile e mastodontico sfondo di una tragedia, quella dell’umano relazionarsi, che non ha inizio e non può permettersi una fine. Gli argini hanno ceduto, l’umanità è ancora in balia dei flutti, e solo una bambina ha ancora la forza di rimanere in piedi, davanti a quella che un tempo fu una casa, a cercare di ascoltare. Cosa, l’abbiamo dimenticato anche noi.

Info
New Orleans mon amour sul sito del TFF.

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