The Warrior and The Wolf

The Warrior and The Wolf

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Per quanto sia doloroso ammetterlo il nuovo film di Tian Zhuangzhuang The Warrior and the Wolf scivola via indolore, muovendo al riso (e alla noia) anche lo spettatore più volenteroso. Al Festival Internazionale del Film di Roma 2009.

È una tribù che ulula

Duemila anni fa, l’Imperatore Han invia il suo esercito all’estremo confine occidentale della Cina, oltre il Deserto del Gobi, per sottomettere le tribù ribelli. La zona, pericolosa e inospitale, al giungere dell’inverno, è popolata solo di lupi. Dopo battaglie cruente e spargimenti di sangue, il Comandante Lu e i suoi uomini iniziano la ritirata, trovando rifugio dalle bufere in un villaggio della tribù maledetta degli Harran, che vivono sottoterra e di cui la leggenda racconta si tramutino in lupi. Un ‘amore bestiale’ legherà Lu ad una misteriosa, inquietante vedova. [sinossi]

Tra le non poche delusioni accumulatesi in questi primi cinque giorni di festival, un posto speciale nel nostro cuore se l’è senza dubbio ritagliato Lang Zai Ji (The Warrior and the Wolf è il titolo scelto dalla produzione per la vendita internazionale), nuovo parto creativo della mente di Tian Zhuangzhuang. Nonostante il suo nome continui a risultare a dir poco esotico per buona parte della critica italiana (e c’è ancora chi ha la forza di stupirsi di ciò?), il cinquantasettenne regista di Pechino rappresenta da almeno due decenni una certezza all’interno delle mappe cinefile internazionali; era il 1986 quando iniziò a fare il suo tour per le varie platee festivaliere del globo The Horse Thief, ancora oggi la pellicola alla quale viene solitamente associato il nome di Tian. Titoli quali The Last Eunuch e soprattutto The Blue Kite consolidarono la sua (pur relativa) fama: all’interno di quel magma apparentemente indistinto – almeno agli occhi dei neofiti – che era il cinema dei registi della cosiddetta Quinta generazione, Tian riuscì a ritagliarsi uno spazio ben definito, alla stessa stregua di Zhang Yimou e Chen Kaige, suoi compagni di corso alla Beijing Film Academy. In tempi più recenti, due opere quali Springtime in a Smalltown (2002) e Go Master (2006) sembravano palesare l’oramai definitiva maturità artistica del regista cinese: esempi di trattenuto e al contempo misterico splendore, i film sopracitati segnavano non solo un punto di contatto estremamente rafforzato di Tian con le radici stesse del cinema prodotto a Pechino e dintorni – Springtime in a Smalltown altro non è se non il remake dell’omonimo film diretto da Mu Fei nel 1948, a ridosso della nascita della Repubblica Popolare Cinese – ma al medesimo tempo aprivano le frontiere, spostando l’occhio verso il vicino Giappone, teatro di scena degli avvenimenti narrati in Go Master.

Le peculiarità appena accennate riemergono con forza nel momento in cui ci si trova ad affrontare The Warrior and the Wolf: seppur tratto da un romanzo di Yasushi Inoue, tra i principali romanzieri nipponici del Novecento – suo lo splendido Honkakubo ibun, tradotto sul grande schermo da Kei Kumai in Morte di un maestro del tè – il film è ambientato nella Cina medioevale, sterminata landa abitata da gruppi di piccole tribù. E proprio sul tema del rito tribale e della necessità di non essere estromesso dal branco si potrebbero cercare le coordinate in grado di riallacciare The Warrior and the Wolf al già citato The Horse Thief: peccato che della capacità di scandaglio dell’umana psicologia e l’acuta osservazione antropologica delle dinamiche interne ai clan avvertibili nel film del 1986 non sia rimasto praticamente nulla. Non è compito facile da assolvere affrontare un’opera come The Warrior and the Wolf, e non solo per le già ampliamente enunciate aspettative che si trascina dietro: la realtà è che il materiale a disposizione di Tian Zhuangzhuang è decisamente affascinante. Gli spazi ampi e brulli, i deserti di sabbia, le lande innevate, sono elementi che da soli potrebbero tranquillamente bastare a giustificare una messa in scena: e dopotutto non si può certo accusare Tian di non avere la sensibilità necessaria ad affrontare un progetto visivo di questo tipo. La regia è decisamente funzionale, elegante e al contempo carica di una rabbia inespressa – le improvvise epilessie immaginifiche, la macchina a mano a seguire, con notevole instabilità, i personaggi –, la fotografia ricca di timbri e tonalità cromatiche, il montaggio scandisce con precisione i tempi narrativi. E allora? E allora semplicemente The Warrior and the Wolf è un film che non va a parare da nessuna parte: tutto ciò che di buono viene architettato a livello puramente tecnico e scenico, soccombe sotto il peso elefantiaco di una sceneggiatura che definire traballante è davvero eufemistico. La storia del buon pecoraio Lu, diventato Comandante delle truppe dell’imperatore Han, che si trova imprigionato dalle intemperie, con i suoi uomini, in un villaggio della tribù degli Harran, e della misteriosa donna alla quale si lega, avrebbe meritato un’accuratezza in fase di sceneggiatura che è stata qui invece destinata alla più totale oblivione. Quello che Tian si limita ad accumulare è una serie di sequenze reiterate che rischiano ben presto di cadere nel ridicolo involontario: la psicologia che guida i personaggi è quantomeno opinabile, e l’intreccio finisce in quattro e quattr’otto per suonare falso e confusionario.
Tutto quel che resta è l’irrefrenabile fame sessuale tra i due protagonisti, cui non giova, nella trasposizione visiva, una connotazione ‘bestiale’ che lambisce in più di un’occasione i confini del cattivo gusto: l’unica reazione possibile, di fronte a un Lu che, dopo l’ennesimo rapporto, chiede alla donna “ma quand’è che abbiamo iniziato a trasformarci?”, è quella di sghignazzare sotto i baffi. The Warrior and the Wolf è un film che non procede in nessuna direzione, incapace di appassionare da un punto di vista strettamente virile – le sequenze di battaglia sono relegate praticamente solo alla prima metà dell’opera –, traballante quando vorrebbe calcare la mano sull’aspetto emozionale e romantico, addirittura invisibile nel confrontarsi con il mito del licantropo.

L’unica soluzione possibile è quella di un aborto spontaneo avvenuto quando il film era ancora in fase di pre-produzione, perché Tian Zhuangzhuang sembra davvero aver messo le mani su un progetto sbagliato in partenza: non si capisce dove voglia andare a parare e si lascia avviluppare fin troppo presto dalle sabbie mobili della faciloneria. La computer grafica, decisamente non una delle migliori viste in circolazione negli ultimi tempi, non corre certo incontro al regista, e ancor meno lo fanno gli attori, lasciati alla mercé di una scrittura dei personaggi a dir poco approssimativa: è un peccato continuare a veder sprecato il talento di Odagiri Joe, tra i più talentuosi interpreti della contemporaneità, ma l’impressione oramai è che sia anche lui a non sapersi scegliere i ruoli con troppa lungimiranza. Tra amplessi di lupi esibizionisti nel bel mezzo della steppa, amici/nemici destinati all’inevitabile resa dei conti finale, tempeste di sabbia, ululati notturni e tribù maledette, The Warrior and the Wolf scivola via indolore, muovendo al riso (e alla noia) anche lo spettatore più volenteroso. Risultato, questo, che sta diventando una vera e propria prerogativa dell’edizione 2009 del Festival Internazionale del Film di Roma.

Info
The Warrior and the Wolf, il trailer.

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