Love and Bruises

Love and Bruises

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Love and Bruises, nuova fatica autoriale di Lou Ye, parte dalla contrapposizione tra oriente e occidente e tra nuovo e vecchio mondo del Capitale per poi perdersi dietro una storia d’amour fou che mostra ben presto la corda e rimesta nel torbido senza particolare inventiva. Alle Giornate degli Autori.

Il mio corpo ti scalderà

Hua è un’insegnante di Pechino che si è appena trasferita a Parigi. Mathieu è un giovane operaio che si innamora follemente di lei. Posseduto da un insaziabile desiderio del corpo di Hua, Mathieu la tratta in modo violento. È l’inizio di un’intensa relazione segnata da passione e abusi. Decisa a lasciarlo, Hua si rende conto di quanto sia forte la sua dipendenza da Matthieu, e del ruolo essenziale che l’uomo ha avuto nella sua vita. [sinossi]

La composizione chimica del cinema di Lou Ye si è sempre basata sul puro istinto: le storie narrate dal cineasta cinese spesso tendono a slabbrarsi progressivamente, a favore di un’umoralità primigenia, quasi selvatica nella sua assoluta mancanza di freni inibitori. Proprio a questo approccio carnale alla materia cinematografica si deve con ogni probabilità parte dei problemi che Lou vive ciclicamente con le autorità cinesi: passando di interdizione in interdizione si è così avuto modo di posare gli occhi su opere coraggiose, estreme e sinceramente appassionate come Weekend Lover e Summer Palace, che gli hanno consentito di farsi largo all’interno dei cuori della critica europea, in particolar modo francese. In effetti Lou Ye è tra gli ospiti fissi del Festival di Cannes, e stupisce non poco vederlo abbandonare le protettive sponde della Croisette per proiettare la sua ultima fatica autoriale al pubblico veneziano.

Fin dall’annuncio della selezione delle Giornate degli Autori, era apparso chiaro come Love and Bruises fosse uno dei pezzi da novanta della selezione collaterale della Mostra: l’importanza dell’autore, la produzione francese e la presenza come protagonista maschile di Tahar Rahim, apprezzato per la sua performance ne Il profeta di Jacques Audiard, si presentavano infatti come biglietti da visita dal valore inequivocabile. Il dispiacere aumenta dunque a dismisura nel dover constatare l’assoluta mediocrità del film, che inizia ad arrancare fin troppo presto per poi ritorcersi inutilmente su se stesso e implodere in un finale rattoppato e ben poco significativo. La storia d’amore tra l’erudita cinese Hua e il sottoproletario Mathieu si configura fin dalle prime battute come l’incontro/scontro tra due personalità e due visioni culturali a dir poco antitetiche: la prima, che vediamo inizialmente arrivare a Parigi alla disperata ricerca di una ricomposizione con un precedente compagno, è una donna dotta, perfettamente a suo agio nella borghesia francese quanto in quella cinese, abituata a frequentare i salotti bene della città; all’esatto opposto si pone invece Mathieu, operaio dal carattere irascibile e dalle amicizie non proprio raccomandabili, con le quali si concede di quando in quando furti e altre attività illegali. Il rapporto tra Hua e Mathieu nasce dunque su un’attrazione fisica, quasi animalesca, che li trascina in un vortice di sesso che li obnubila e nel quale costruiscono il proprio nido. Ed è proprio sulla rappresentazione della sessualità che Love and Bruises fa intravvedere i limiti dell’intera operazione: affidandosi in forma quasi esclusiva a una reiterazione stancante e non troppo motivata degli amplessi tra i due protagonisti (l’unico rapporto che esula da quello tra i due è giocato volutamente con un’ellissi temporale), Lou non riesce a evitare una standardizzazione dello sguardo, errore nel quale in passato non era mai caduto. Tutto si fa dunque prevedibile e a ciò non riesce a supplire la messa in scena, arma utile a mascherare proprio questa mancanza di introspezione psicologica e di ricchezza narrativa: a un incipit folgorante e ansiogeno (lo scontro di Hua con il precedente amante, l’incontro fortuito tra la donna e Mathieu) fa seguito un appiattimento dell’insieme sui cliché più abusati dell’amour fou, tra discussioni destinate a sfociare in rappacificazioni piangenti, fughe e ritorni.

Anche la descrizione sociale, che poteva ambire a donare nuova e salvifica luce alla pellicola, si perde in un abuso di luoghi comuni sulle differenze tra le varie classi: resta, sottotraccia, l’idea della Cina come nuova potenza del Capitale, pronta ad acquisire dall’esperienza occidentale vizi (molti) e virtù (poche), ma anche in questo caso il tema avrebbe meritato un’attenzione ben diversa. Le interpretazioni del già citato Rahim e di Corinne Yam sono lodevoli, ma svaniscono nello sfiancante ritmo di un film sterile, opera minore di un autore che corre il rischio di aver già messo in mostra il lato migliore della propria poetica.

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