Red Army

Red Army

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Gabe Polsky porta alla ribalta, in Red Army, la storia della nazionale sovietica di hockey su ghiaccio a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, considerata universalmente la squadra più forte di ogni tempo. Tra le séances spéciales di Cannes 2014.

La squadra dei sogni

I destini incrociati tra l’Unione Sovietica e la sua nazionale di hockey su ghiaccio, soprannominata “l’armata rossa”: una dinastia unica nella storia dello sport. Lo storico capitano della squadra, Slava Fetisov, ricorda il proprio percorso fuori dal comune: inizialmente adulato come eroe nazionale, verrà presto condannato come nemico politico… [sinossi]

In porta Vladislav Tretiak, che componeva il reparto difensivo con il genio tecnico di Vjačeslav Fetisov e Aleksej Kasatonov; davanti a loro la temutissima linea KLM, composta da Vladimir Krutov, Igor Larionov e Sergej Makarov. Nessuna squadra nella storia dell’hockey su ghiaccio ha mai potuto pensare di competere, anche solo vagamente, con la nazionale dell’Unione Sovietica che dominò il mondo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, ed è anche arduo trovare un corrispettivo all’URSS dell’epoca in qualsiasi altro sport di squadra. I sei nomi citati dianzi potranno forse risultare oscuri alla maggior parte dei lettori, ma è indubbio che la loro sia da annoverare tra le esperienze sportive più esaltanti: una pura e semplice sinfonia di gioco, che attraverso il collettivo dava sfogo all’estro artistico di giocatori dotati in egual misura di classe pura e potenza esplosiva. Eppure quella nazionale miracolosa, vincente sempre e comunque, venne inopinatamente battuta dall’assai più modesta compagine statunitense proprio nel momento cruciale, durante la finale dell’Olimpiade invernale di Lake Placid del 1980, nel cuore dell’America che da lì a pochi mesi sarebbe diventata reaganiana. Nel centro pulsante della Guerra Fredda l’imbattibile compagine sovietica si inceppò, tarpando i sogni di coloro che vedevano in un’affermazione dell’URSS in terra statunitense una vittoria del socialismo sul personalismo esasperato del Capitale. Fu invece Jimmy Carter a congratularsi con l’allenatore dei ragazzi provenienti dai college dei 52 stati, gloriandosi del trionfo della “libertà” contro le storture della dottrina sovietica.

Non esisteva, fino a oggi, un’opera cinematografica che affrontasse con coraggio tutte le questioni, personali e universali, legate all’Armata Rossa dell’hockey – così era ribattezzata la nazionale, visto che a prendersene cura era direttamente l’esercito – e a ciò che significarono dapprima i loro trionfi e quindi il loro tumultuoso discioglimento: a mettere una toppa alla falla ci ha pensato Red Army di Gabe Polsky, alla seconda avventura nelle vesti di regista dopo il largamente apprezzato The Motel Life, girato insieme al fratello Alan e presentato in concorso al primo Festival di Roma sotto l’egida di Marco Müller, dove vinse il premio del pubblico e quello per la migliore sceneggiatura.
Anche Red Army (presentato come séance spéciale alla sessantasettesima edizione del Festival di Cannes) ha tra i suoi punti di forza uno script eccellente, attraverso il quale la narrazione si sviluppa in maniera non lineare eppure sempre in grado di vivere in un crescendo emotivo continuo e avvolgente. Prendendo il la da un lavoro tutt’altro che banale e decisamente ricco sul materiale d’archivio – che non serve da supporto alle parole delle persone intervistate, ma rintraccia invece una propria via espressiva, indipendente eppure strettamente connessa alle memorie dei protagonisti –, Red Army piazza la videocamera sui volti di alcuni degli eroi di quella nazionale, a partire da quel Vjačeslav Fetisov la cui parabola umana permette di comprendere a pieno il senso del lavoro documentario di Polsky. Fetisov, idolatrato dalla folla e tenuto in alta considerazione dal Cremlino, visto che poteva facilmente essere utilizzato come strumento di propaganda, ruppe definitivamente con la nazionale sul finire degli anni Ottanta e trasmigrò nella NHL, la lega professionista statunitense. La sua vita oltreoceano, che poteva a prima vista apparire come lo smacco definitivo dell’american way of life nei confronti del socialismo reale, durò poco, e ora Fetisov ha fatto (come tutti i suoi compagni) ritorno in Russia, rimpiangendo comunque l’idea di collettività che si respirava nell’Unione Sovietica, a dispetto del liberismo che sta corrompendo il già tumorale corpo democratico della nazione governata (tiranneggiata) da Vladimir Putin.

Viaggio sportivo, politico, sociale e umano allo stesso tempo, Red Army è una riflessione divertita ma mai ridanciana dell’ultimo segmento di Guerra Fredda e della fine della contrapposizione tra Patto Atlantico e Patto di Varsavia. Nel mezzo di tutto ciò, si avverte forte la fascinazione di Polsky per un universo sportivo del tutto distante da quello statunitense, in cui le strategie della squadra venivano studiate e concertate insieme ad Anatolij Evgen’evič Karpov e i metodi di allenamento del guru Anatolij Tarasov prevedevano di lanciarsi in ripetute capriole sul ghiaccio e di palleggiare il puck con la stecca. Perché la grazia, l’eleganza e la follia della genialità che i sei titolari dell’Armata Rossa dell’hockey venivano da lontano, da un’ideologia di vita (già superata e deturpata in realtà con lo stalinismo) prima ancora che da una prassi atletica.
Altri tempi.

Info
Il trailer di Red Army.
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