Intervista a Carlo Shalom Hintermann

Intervista a Carlo Shalom Hintermann

A ridosso dell’uscita nelle sale di The Dark Side of the Sun abbiamo incontrato Carlo Shalom Hintermann, per parlare del suo film, del cinema documentario, della distribuzione. E di molto altro…

Sostituire il giorno per la notte. È quanto sono costretti a fare i bambini e i ragazzi di The Dark Side of the Sun. Affetti dallo Xeroderma Pigmentoso, una malattia rarissima che provoca tumori della pelle con l’esposizione solare, i protagonisti del film diretto da Carlo Hintermann condividono la loro esperienza quotidiana in un campo notturno nello stato di New York, Camp Sundown. Ma la sostituzione del giorno con la notte diventa anche la sfida dello stesso Hintermann che si prende in carico di innestare nel cinema documentario tutta una serie di strumenti normalmente poco utilizzati, compresa l’animazione – a opera di Lorenzo Ceccotti – vero e proprio nucleo visivo e simbolico del film, sviluppato a partire dalle varie fantasie e paure notturne dei bambini protagonisti.
Dopo essere stato presentato nel 2011 al Festival di Roma, The Dark Side of the Sun ha avuto finalmente la meritata opportunità di uscire in sala in questi giorni e abbiamo colto l’occasione per incontrare Hintermann, riprendendo il filo di un discorso iniziato nei giorni della manifestazione capitolina con le interviste al regista, a Lorenzo Ceccotti e al produttore del film, Daniele Villa.
In questa nostra nuova conversazione con Hintermann – che ci ha accolto negli spazi della sua società di produzione, la Citrullo International, fondata insieme a Luciano Barcaroli, Gerardo Panichi e Daniele Villa – abbiamo parlato delle difficoltà distributive che il film ha incontrato, del lavoro fatto sull’adattamento italiano e delle questioni morali e metodologiche che è stato necessario affrontare per poter girare a Camp Sundown senza snaturare i complessi equilibri di quel mondo. Da figura poliedrica quale è – regista, produttore, musicista con gli Errichetta Underground, ma anche distributore e autore di diversi libri sul cinema, oltre che di collaborazioni con grandi registi, americani e non, a partire da Terrence Malick – Carlo Hintermann ci ha raccontato anche tutte le altre sua attività che comprendono anche la produzione dei prossimi film di Amir Naderi e Amos Gitai.

Leggi anche la seconda parte dell’intervista a Carlo Hintermann: l’etica, l’animazione, il Giappone, la musica, il metalinguaggio…
Leggi anche la terza parte dell’intervista a Carlo Hintermann: la Citrullo International, la distribuzione e lo stato del cinema in Italia.

The Dark Side of the Sun ha trovato spazio in sala ben due anni e mezzo dopo la presentazione al Festival di Roma del 2011, ed è uscito in versione doppiata. Avete dovuto sottostare a dei compromessi per poter distribuire il film in Italia?

Carlo Shalom Hintermann: No, in realtà, l’idea del doppiaggio italiano c’è stata da subito, da quando cioè abbiamo iniziato a pensare alla distribuzione. Era qualcosa quindi che era già nell’aria, anche se all’inizio mi spaventava un po’. Considerate in ogni caso che nel film c’è mezz’ora di animazione, il che richiedeva una traduzione e in fin dei conti un doppiaggio abbastanza tradizionale. Sotto questo punto di vista quindi l’idea del doppiaggio non mi sembrava così terribile. Poi, ragionandoci, vi è ovviamente anche un’esigenza distributiva perché i film doppiati vengono programmati nei cinema con molta più facilità. A queste considerazioni, va aggiunta quella relativa alla mia biografia: ho sempre avuto un legame stretto con il doppiaggio perché mio padre, l’attore Carlo Hintermann, ne faceva molto e io, da piccolo, ho anche lavorato con lui, per esempio su Chobin, il principe stellare, dove mio padre dava la voce al cattivo, Brunga. Si è trattato di un’esperienza molto divertente, sia per lui che per me. Questo ha fatto sì che, rispetto al mondo del doppiaggio, non ho mai provato un’opposizione particolare, anche se ovviamente preferisco vedere i film in originale. E, proprio perché ci sono cresciuto, apprezzo moltissimo le professionalità italiane in questo campo. Per cui, quando si è trattato di lavorare sulla versione italiana di The Dark Side of the Sun, abbiamo ragionato su un direttore del doppiaggio che ci potesse dare delle garanzie e alla fine, tramite Microcinema [distributore del film, n.d.r.], abbiamo incontrato Rodolfo Bianchi. Il lavoro che fa lui è davvero affascinante, perché tiene da parte l’aspetto tecnico e si concentra su una traduzione poetica, senza voler inseguire la totale fedeltà e cercando piuttosto di restituire il senso ultimo di un’operazione. Ad esempio, con Nebraska ha recuperato degli attori novantenni e, se sentite le registrazioni off-record, ci sono dei momenti bellissimi con loro che si ricordano alcuni episodi del passato e si dicono: “Ma Nino, ma è morto?”. E quindi, per attori così, il sync o il filmato che gli passava davanti era come se non esistesse. Per loro si trattava soprattutto di un ritrovarsi insieme, che è un po’ quello che accade con certi personaggi del film di Alexander Payne. Questo per dire che l’interesse principale di Rodolfo Bianchi è quello di poter ricreare un’emozione. E allora, quando con lui abbiamo affrontato The Dark Side of the Sun, ci siamo posti delle domande soprattutto sulla parte documentaria. Una cosa che lui odiava – e io mi trovavo d’accordo con lui – era il finto doppiaggio che si fa adesso nei reality, dove il suono reale di un film viene relegato al sottofondo, quasi cancellato e si mette in opera una specie di interpretazione che non è né un doppiaggio né una voice over. Quindi siamo intervenuti dando quegli elementi basilari che permettessero di comprendere il significato di ciò che si diceva e aiutassero a portare lo spettatore dentro il film, ma senza spingere sul lato dell’interpretazione. Così abbiamo avuto la possibilità di lasciar “respirare” l’originale. Infatti i doppiatori hanno delle ampie pause e sono i momenti in cui le voci originali tornano a volume normale. In più abbiamo lasciato tutte le parti di gioco e di interazione tra i bambini completamente in originale perché, anche se non si capisce il senso della singola battuta, si coglie lo spirito di quel che avviene in scena. Con questa impostazione mi è sembrato perciò di non tradire il film, anzi proprio perché è uscito così in ritardo – per vicissitudini e non per scelta – l’operazione del doppiaggio ha significato per me poter rimettere mano a The Dark Side of the Sun presentandolo al pubblico italiano in una veste completamente nuova. In questo modo, con un apporto creativo e artistico, il gesto del doppiare il film ha avuto, per me, maggior senso. La scelta degli attori, poi, è stata molto accurata ed è stata fatta sempre con Rodolfo Bianchi. Io avevo in mente da subito Leo Gullotta perché poteva dare un particolare colore di voce al capo dei tassi. Dato che l’originale inglese è molto parlato, a tratti drammatico e anche poetico, sentivo che servivano degli attori, come Leo Gullotta, che potessero sdrammatizzare certi passaggi dandogli una chiave diversa. Lo stesso è accaduto con Pino Insegno, su cui io e Rodolfo ci siamo trovati subito d’accordo. Sia Gullotta che Insegno hanno fatto un preciso lavoro di sottrazione. Con Pino, che interpreta il padre di Katie [malata di XP e figlia di Dan e Karen, che hanno fondato Camp Sundown per lei, n.d.r.], è stata usata la tecnica di non fargli leggere precedentemente le battute, di non fargli vedere il film prima del doppiaggio e di farlo trovare quindi un po’ nel mezzo in modo tale di poter ricreare l’emozione naturale e immediata di quel che si trovava a leggere. E questa lettura sull’impronta il più delle volte ha funzionato. Insomma, è stato bello e, visto che ho potuto seguire tutte le fasi del doppiaggio, mi sono anche appassionato. Per questo lavoro ulteriore che è stato fatto devo ringraziare anche Giuseppe D’Amato, il montatore del film, che recentemente ha fatto Sacro GRA e ha seguito anche lui per intero questa fase della lavorazione. Perciò, alla fine, la dedizione che le persone avevano messo nel realizzare il film è proseguita anche nell’edizione italiana, il che mi ha fatto molto piacere perché è bello quando rimetti mano su qualcosa e ritrovi lo stesso spirito. Si tratta di una cosa tutt’altro che scontata.

Volevamo approfondire proprio il discorso su questo percorso che hai seguito con tanta attenzione, come dicevi, fino al mix finale. Perché non tutti gli autori magari avrebbero rivelato lo stesso interesse. In questo crediamo di riconoscere l’importanza che ha per te l’aspetto sonoro di un film, che ci fa pensare ad esempio al tuo interesse verso figure come Michel Chion…

Carlo Shalom Hintermann: Sì, penso che il suono sia un elemento fondamentale, mi ha sempre interessato. E, oltre ad averci lavorato di frequente in prima persona e ad aver curato spesso con musicisti e compositori la parte musicale, noi della Citrullo abbiamo sempre cercato di avere, dal punto di vista produttivo, un budget importante per il suono, soprattutto nei documentari dove ottenere una cosa del genere è più difficile. Lo considero un aspetto della lavorazione di un film veramente importante, soprattutto in un momento in cui, invece, tantissime professionalità e fasi del lavoro vengono sottovalutate, relegate a un budget inadeguato e senza dare a disposizione il tempo giusto. Perciò anche nei progetti in cui non curiamo la regia, come per il nuovo film di Amos Gitai, stiamo lavorando molto con il montatore del suono che si chiama Alex Claude e ha preso parte ad alcuni dei più importanti film israeliani, da Lebanon ad Ana Arabia. È una fase di scrittura fondamentale che mi affascina tantissimo, non ce la faccio a non parteciparci. Quindi anche questa nuova traduzione di The Dark Side of the Sun richiedeva ulteriori ritocchi, tra cui quello di re-immaginare i rapporti tra i suoni, in particolare nella parte animata che a livello di suono è molto ricca. Si tratta di un aspetto su cui hanno lavorato tra gli altri Stefano Grosso, altro importante montatore che ha a sua volta lavorato a Sacro GRA, e Marco Saitta come missatore. In generale, come Citrullo, cerchiamo di creare un gruppo di persone e rimaniamo molto fedeli a questo gruppo. Cerchiamo di creare un percorso in cui poter crescere insieme, siamo più o meno coetanei e ormai un po’ acciaccati, però…

Per l’edizione italiana di The Dark Side of the Sun avete fatto altri cambiamenti oltre al doppiaggio?

Carlo Shalom Hintermann: No, è rimasto tutto invariato, tranne il fatto di tradurre i cartelli, e ahimè, con l’aggiunta di una dedica finale: il film inizialmente era dedicato solo a Kevin, ma purtroppo abbiamo dovuto aggiungere anche Megan, che nel frattempo è venuta a mancare. È successo pochissimo tempo fa e la cosa ha creato un grande sconcerto al campo, perché Megan vi aveva partecipato sin dall’inizio ed era una delle migliori amiche di Katie, oltre che una seconda figlia per Dan, il padre di Katie. È stata una tragedia molto difficile da affrontare per noi e per tutte le persone del campo. Non era molto presente nel film, ma aveva svolto un ruolo fondamentale a Camp Sundown, anche per il modo in cui si è relazionata con noi quando eravamo lì, perché ci ha aiutati moltissimo. Oltretutto, quel che le è successo è stato completamente inaspettato, perché si era resa indipendente, si era laureata, aveva un lavoro. Era un modello per tutti, perché rappresentava il simbolo di una persona che ce l’aveva fatta, che aveva la sua vita e sembrava stare bene, visto che si era sempre protetta molto. Kevin, ad esempio, ha sempre fatto il contrario, si è sempre esposto dicendo: “Io vivo quanto vivo, però non rinuncio a tutta una serie di cose”. E quindi Kevin sapeva benissimo, come lo sapeva chi gli stava intorno, che non poteva resistere a lungo. Nel caso di Megan invece il dramma è stato completamente inaspettato. Ha subito un aggravamento improvviso, come può succedere in questo tipo di malattia.

A proposito di quel che dicevi, cioè del lavoro creativo fatto al doppiaggio, ci è parso in effetti che il contributo di Pino Insegno abbia messo in maggior risalto il ruolo di narratore del padre di Katie, Dan. E, allo stesso tempo, forse guidati dalla riconoscibilità della voce di Insegno, ci sembra sia emerso con maggior chiarezza il contributo decisivo che Dan ha dato al film. Ci pare cioè che abbiate instaurato con lui un rapporto molto profondo, in cui si passa da faccende di vita quotidiana a monologhi anche poetici come quello sulla Pietà di Michelangelo.

Carlo Shalom Hintermann: La scelta di Pino Insegno parte dalla passione per degli attori che lui doppia e che a me piacciono moltissimo, come Viggo Mortensen o Liev Schreiber. Sono interpreti che hanno la capacità di passare da un registro medio di osservazione – come ad esempio Mortensen in A History of Violence, in cui il suo personaggio ha dei rivolgimenti continui – a quello di narratori. Pino è incredibile perché tra la sua figura di narratore e quella più istrionica passa un abisso: sembrano due persone completamente diverse e questo lo rende davvero interessante, il che ovviamente ha reso anche molto divertente lavorare con lui. In più, con Pino, si è creata anche un’atmosfera familiare perché mi ha raccontato di aver conosciuto bene mio padre, con cui aveva stretto un legame molto forte, una cosa che non sapevo o che non ricordavo, perché ero molto piccolo, e che mi ha fatto davvero piacere. E poi, per passare a Dan, è vero che abbiamo instaurato un rapporto molto profondo con lui, sia io sia Daniele Villa, il produttore del film, che il resto della troupe. La cosa interessante di questo personaggio, un aspetto che appare a tratti in The Dark Side of the Sun, è che ha una tendenza all’astrazione, assolutamente insita in lui. Infatti, mentre la moglie si occupa della quotidianità in maniera molto pratica, riuscendo in modo straordinario ad astrarsi persino dalle situazioni più dolorose, lui invece è una persona estremamente spirituale. Per certi versi è come se fosse “sciolto” nel luogo, in Camp Sundown. Per farvi capire di più su di lui, vi voglio rendere partecipi di un episodio molto bello che finora non ho mai raccontato e che è legato al campo. Quando Dan e Karen si erano conosciuti da ragazzi, una delle prime volte che erano usciti insieme, lui aveva preso in prestito la macchina di un amico per fare colpo su di lei e per poterla portare fuori. Fatto sta che questa macchina si è rotta in un’area dell’Hudson River, vicino a Gastby – la città dove vivevano – e, non sapendo bene come fare, Dan ha bussato alla porta di una casa per avere aiuto e chiedere l’intervento di un carro attrezzi. Entrato in questa casa, ha avuto un’illuminazione, perché era molto bella, circondata dal bosco intorno, e ha detto a Karen, che praticamente era quasi ancora una sconosciuta: “Sarebbe bellissimo se un giorno avessimo un posto come questo”. Karen era rimasta decisamente perplessa, perché aveva pensato: “Ma questo chi è? Ci siamo appena conosciuti e già pensa a queste cose?”. La storia invece va avanti, i due si sposano, hanno cinque figli, fino a che arriva Katie. Scoprono che soffre di una malattia così particolare e a un certo punto decidono di rompere l’isolamento della bambina. Iniziano perciò a lavorare sull’idea del campo, ne creano uno provvisorio in casa loro, incontrando tutta una serie di difficoltà. Poi iniziano a portare l’idea del campo in alcuni hotel, ma ovviamente la cosa non viene accettata perché questi bambini malati di XP, visto che hanno dei problemi con la pelle, spaventano gli altri bambini. Dan e Karen decidono alla fine di prendersi un loro spazio, riescono a ottenere una grande donazione e un giorno un signore li chiama e gli dice: “Guardate io posso vendervi a un prezzo conveniente la mia tenuta”. Vanno sul posto ed era esattamente la stessa casa davanti alla quale si era fermata la macchina tanti anni prima. È lì che oggi c’è Camp Sundown. Poi, ci si può credere o no a questa storia, si può parlare di destino o di incredibile casualità, però rende l’idea di come sia Dan, per certi versi è un animista, completamente “sciolto” nella natura, uno che vive su di sé tutte le persone che hanno attraversato il campo. Quindi quell’astrazione e quel livello di discorso è venuto fuori in modo molto naturale, non è stato mai sollecitato da noi, non gli abbiamo mai detto: “Adesso immagina questa cosa”. Tutte queste riflessioni, a partire dal discorso che fa sulla Pietà di Michelangelo, sono nate da conversazioni che abbiamo fatto con lui e che avevamo deciso di registrare. Si partiva da racconti o da aneddoti, in cui lui trovava sempre una particolare chiave di astrazione.

Una cosa che ci ha colpito sin dalla prima volta che abbiamo visto il film è quel momento in cui i bambini, intorno a un falò, cantano This Land is Your Land di Woody Guthrie. Così insita nell’immaginario simbolico americano, quella canzone diventa, cantata da loro, una sorta di tentativo di riappropriazione della terra, di quella terra che per certi aspetti gli viene negata, visto che non la possono attraversare e vivere di giorno, con la luce del sole. È tanto perfetta una canzone come questa che ci chiediamo se per caso l’abbiate suggerita voi.

Carlo Shalom Hintermann: No, non è stata suggerita, ma era davvero molto bello che la cantassero. In quella canzone, come del resto in tanti altri elementi del film, c’è l’idea che è giusto trascendere i propri limiti ma, se non abbiamo un posto in cui approdare, nulla ha senso. Effettivamente c’è nel film, come nelle persone presenti nel film, la volontà e la ricerca di un’identità, di un appropriarsi di qualcosa. E lì questo succede veramente perché appropriarsi di un tempo completamente altro come quello della notte, che riguarda non solamente le persone affette da XP ma tutti quelli che si trovano a condividere quella realtà – parenti o amici –, è qualcosa che si sente in maniera molto forte anche per chi, come noi, è passato per il campo solo per un periodo. Si sente davvero una forza particolare in tutto ciò. Il loro non è un tempo neutro, è un tempo dedicato a riappropriarsi di qualcosa, continuamente. Si tratta di un riappropriarsi anche di aspetti molto semplici della vita, come ad esempio quello di essere liberi e spensierati, di dedicarsi al gioco, allo scambio. Credo che in questo loro siano molto intelligenti ed è il motivo per cui noi ad un certo punto abbiamo deciso di realizzare The Dark Side of the Sun. Perché io, nei primi contatti che ho preso con loro, non ero convinto di voler fare il film, non volevo che il film alterasse la situazione del campo, non volevo che l’entrare a Camp Sundown con le camere creasse tutta una serie di aspettative. Sono cose molto delicate, su cui abbiamo ragionato a lungo. La cosa interessante in tal senso è che loro hanno combattuto sempre, anche a discapito della pubblicità o dell’esposizione mediatica, qualsiasi tentativo che andasse ad alterare lo spirito unico che muove Campo Sundown. Lì ognuno fa il suo percorso, mette in campo tutta la sua vita e questo vale anche per chi non è malato perché, nel confronto con coloro i quali sono affetti dalla XP, si trova necessariamente a dover vivere un’esperienza particolare, a confrontarsi con una realtà completamente altra. Per esempio, il confronto che loro hanno con la morte è del tutto diverso, la morte è un aspetto quotidiano della loro vita, un qualcosa che è sempre presente nel loro orizzonte. E questa è una cosa che, per chi non ha dimestichezza con la malattia, appare inaccettabile. L’idea infatti che l’orizzonte della morte sia presente nella vita di un bambino sembra quasi una contraddizione in termini. Lì invece c’è questa grande consapevolezza, ma allo stesso tempo c’è la consapevolezza del rovescio, del fatto cioè che, a quel punto, è necessario avere una vita il più piena possibile. E questo – è inevitabile – lo respiri. Il forte senso di partecipazione viene proprio da qui e lo si esplicita in momenti come quello in cui cantano la canzone di Woody Guthrie.

Per ricollegarci a quello che dicevi, cioè al fatto che il campo è uno spazio molto peculiare, vorremmo che ci spiegassi quale è stato il vostro modus operandi. Immaginiamo che abbiate avuto un approccio completamente diverso da quello di qualsiasi altro documentario, non solo perché si è ribaltato il giorno con la notte, ma proprio perché la loro “terra” è come se fosse una terra altra.

Carlo Shalom Hintermann: L’iter è stato faticoso, molto lungo, perché serviva il tempo per instaurare una relazione forte. Io credo che, a volte, nel documentario ci sia un fraintendimento, perché tutto quello che è narrazione, costruzione narrativa, viene visto come un male, con il preconcetto che il documentario è qualcosa che non interviene mai sul reale, che non si scrive, eccetera. Al contrario, più veniva analizzata quella realtà, più ci prendevamo del tempo per studiarla, più sentivamo la necessità di riscriverla, proprio perché solo attraverso la scrittura emergeva il lato surreale della loro vicenda. Avevo in mente Luis Buñuel, e nella mia testa mi diceva: “Vai dritto, metti dentro l’animazione, tutti i suggerimenti dei bambini portateli fino in fondo”. In questo caso rispettare la realtà significava paradossalmente lavorare sulla realtà dei loro sogni, delle loro paure, dei loro desideri. E con questo andava cercato un equilibrio rispetto alla nostra capacità di osservazione, soprattutto nelle relazioni che crescevano e si perpetravano negli anni, come ad esempio l’amicizia tra Patrick e Rachel, che sono i due bambini più piccoli. Dal punto di vista metodologico, questo significava che il rapporto con la camera e con noi che giravamo non alterasse quanto accadeva. Questo l’abbiamo ottenuto andando un primo anno senza girare praticamente nulla, ma facendo dei workshop insieme a loro, in cui erano loro stessi che riprendevano e quindi entravano dentro il meccanismo e capivano quello che avremmo fatto. Perciò, da quel momento in poi, il gesto della ripresa era diventato qualcosa di quotidiano, quindi la ritrosia a essere inquadrati veniva automaticamente superata. Inoltre, c’era bisogno di una serie di accorgimenti tecnici per poter cogliere il più possibile quanto avveniva. Per esempio, per avere l’audio in alcuni momenti e per non trovarci a essere invadenti, abbiamo usato tantissimi microfoni in tutto il campo, nascosti ovunque. Federico Dummolo, che è il fonico della presa diretta, ha fatto un lavoro eccezionale. Avevamo un mixer con tantissimi microfoni aperti, alcuni nascosti nei vasi di fiori, appoggiati all’aperto. Avevamo punti microfonati ovunque e in questo modo non eravamo costretti a intervenire direttamente all’interno dell’azione. E dopo un po’ questo si allargava a tutto. Una cosa che abbiamo fatto è stata che abbiamo operato una sorta di selezione etica, nel senso che chiunque non fosse in grado di comprendere quella realtà non avrebbe potuto partecipare al film, quindi c’era una precisa consapevolezza e condivisione dal punto di vista umano di quello che avremmo fatto. E quindi tutti sono diventati delle sentinelle di quello che accadeva nel campo, una volta poteva essere Daniele Villa che suggeriva una situazione, una volta il fonico che ne aveva individuato un’altra, o Giancarlo Leggeri, il direttore della fotografia, che ne aveva trovata un’altra ancora. Eravamo come delle spugne che assorbivano tutto quello che stava intorno. Tante volte s’è trattato di capire cosa non riprendere, quando ciò che si stava sviluppando non era maturo. Ad esempio con Fatima, la ragazza italiana che viene operata, ci siamo interrogati su quale distanza tenere con la camera. Basta fare uno zoom di un centimetro che probabilmente quella distanza che ti sembra “giusta” viene alterata. Cose su cui, secondo me, ci si riflette molto poco. Molto spesso capita che quando c’è un argomento forte in un documentario si ha l’idea che quell’argomento riesca a trainare tutto il resto. Spesso vedo documentari o anche scuole per documentaristi interessanti, ma tagliate con l’accetta. E a un certo punto c’è per forza la necessità di interrogarsi a che distanza stare da quello che si riprende, quando intervenire e quando no. E quindi questa è stata un’attitudine che avevamo già al momento delle riprese, poi al montaggio è stata amplificata ancora di più. Era una consapevolezza che sentivamo tutti. Dall’altra parte, il fatto di non essere spaventati dal cinema – questo caratterizza noi Citrullo come produzione, anche per il lavoro che abbiamo fatto con The Tree of Life –, di accettarne il respiro naturale, ci ha aiutati molto. C’è chi inorridisce se ad esempio in un documentario trova un dolly, perché pensa che si sia falsificata la realtà. Per noi non è così: il cinema è sempre rivoluzionario quando appare. Per esempio, per me i momenti di indagine dentro il bosco non potevano che essere ripresi con un dolly, perché ciò che viene ripreso è lo spirito che fluttua in quello spazio. Come lo racconto altrimenti? Lo racconto con una camerina in mano tenuta da me mentre corro per il bosco? È più reale quello? Perché per alcuni è così. In realtà per me si sente di più la relazione se viene fatta con i mezzi del cinema, cioè se lo spirito è il cinema stesso. Io ho sempre abitato il cinema, per me è sempre stata una seconda realtà, non è che vado a vedere i barlumi di realtà che ho tradito oppure non ho tradito. Devo dire che il fatto di aver lavorato quasi in concomitanza a The Tree of Life è stato fondamentale. Perché io e Giancarlo Leggeri facevamo i sopralluoghi per le riprese naturalistiche per Malick – gli uccelli, gli stormi, i vulcani, ecc. – e lì scrivevamo qualcosa con la realtà e la natura. Una volta che sei entrato in quel mondo, una volta che Malick ti ha dato una sorta di imprimatur, ma anche ti ha dimostrato il coraggio e la sua scelta di non accettare compromessi, una volta che hai fatto quello, non torni indietro. Però questo significa anche esporsi a un sacco di critiche, perché poi alla fine tanti puristi del documentario non condividono questo approccio.

A quali critiche ti riferisci?

Carlo Shalom Hintermann: Ci sono delle auto-censure nel mondo del documentario, soprattutto in Italia, molto ridicole, che appartengono a un nucleo. Ma questo, del resto, succede dappertutto: c’è sempre la volontà di crearsi una posizione di rendita rispetto a quello che fai, di dare uno statuto a qualcosa, di identificarti con quello statuto e dire: almeno sono un’autorità e ho un peso. E questo passa attraverso i premi, gli insegnamenti universitari, eccetera. E ogni volta che si prova a mescolare un po’ le carte, che c’è un approccio che cerca di seguire una strada fino in fondo, questa cosa mina le rigidità. E quindi finisci per scontrarti con queste realtà. Molto spesso il massimo della critica è dire: non mi ha convinto, che è ancora peggio dell’argomentare. È come dire: sento che c’è un pericolo e lo esplicito così, dicendo che non m’ha convinto. Ci sono questi luoghi in cui il documentario sembra qualcosa di sacro, salvo poi fare esattamente il contrario di quello che s’era scritto nei manifesti. E io lo trovo semplicemente ridicolo perché: uno, fai cinema; due, ogni nicchia è la morte di tutto. Tutti gli autori che ho stimato e che continuo a stimare sono dei kamikaze che vanno come Woyzeck che è una lama che attraversa il mondo. Non si piegano, anche se magari si spezzeranno a un certo punto, perché comunque si tratta di persone molto sensibili. Non è che non soffrono quando, per congiunture folli, si decide che un autore non è più un autore. Per esempio, su Les inrockuptibiles descrivevano Kitano come “ex grande cineasta”. Molto spesso quindi si soffre per questa cosa, però allo stesso tempo se c’è una natura che non puoi addomesticare, quella continua e va. Come nel caso di Malick, lui fa i suoi film e basta.

Leggi anche la seconda parte dell’intervista a Carlo Hintermann: l’etica, l’animazione, il Giappone, la musica, il metalinguaggio…
Leggi anche la terza parte dell’intervista a Carlo Hintermann: la Citrullo International, la distribuzione e lo stato del cinema in Italia.

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