Il prezzo della gloria

Il prezzo della gloria

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Arriva in sala Il prezzo della gloria, il film con cui Xavier Beauvois rievoca un tragicomico episodio legato alla morte di Charlie Chaplin. Ricordo e omaggio al contempo, gradevole e divertente, ma anche molto superficiale e accademico. Con un mielato Benoit Poelvoorde.

La salvezza è nel circo

Fine degli anni ’70 nella cittadina di Vevey, sulle sponde del lago di Ginevra. Eddy, un belga di quarant’anni, esce di prigione e viene accolto dal suo amico Osman. I due fanno un patto: Osman lascia che Eddy viva nel suo capanno e, in cambio, Eddy si prende cura della figlia di sette anni di Osman, Samira. Un giorno, però, in televisione viene annunciata la morte di Charlie Chaplin, che lascia agli eredi un’enorme ricchezza. Eddy si ritrova a sognare a occhi aperti e a meditare una strana idea: se rubasse il corpo del defunto attore per chiedere un riscatto alla famiglia? [sinossi]

Riconversioni alla commedia. Dopo Iñárritu con Birdman, ecco Xavier Beauvois prendere in contropiede la Mostra di Venezia con Il prezzo della gloria. Due autori che da sempre ci hanno abituati al dramma (nel caso di Iñárritu, senza risparmiarsi e risparmiarci nulla) approdano in concorso a Venezia sull’onda della commedia, per un’apertura di festival mai così ridereccia negli ultimi anni. Altra curiosa coincidenza: se Iñárritu gioca tra meta-cinema e meta-teatro, Beauvois propone una vicenda che a sua volta s’intreccia saldamente a uno dei miti più solidi e duraturi della storia del cinema, ovvero Charlie Chaplin.
Il prezzo della gloria s’ispira infatti a ciò che realmente accadde poco dopo la morte di Chaplin a Vevey in Svizzera. Due immigrati ne trafugarono il cadavere e chiesero un riscatto per restituire la bara. Nella realtà, però, per stessa ammissione di Beauvois i fatti e i personaggi furono meno brillanti e gradevoli, così come la giustificazione morale dell’atto (nel film il riscatto è richiesto per poter pagare le spese mediche della moglie di uno dei due trafugatori) non corrisponde alla verità di cronaca.
E’ evidente che Beauvois ha utilizzato lo spunto iniziale della vicenda per plasmarlo a sua volontà e comporre un omaggio al cinema stesso di Chaplin, rievocato nelle sue figure e nei suoi temi, a cominciare dal contrappunto con l’ambiente del circo che viene inopinatamente a riscattare l’esistenza di uno dei protagonisti.

L’operazione è gradevole, simpatica, adagiata in un linguaggio classicheggiante che rasenta l’impersonalità. Si ride spesso, i meccanismi classici della “coppia balorda” di criminali e dell’evento più grande di loro sono ben oliati. Soprattutto funziona il riadattamento di umori chapliniani in una diegesi priva di fronzoli, ben ancorata a un contesto reale e credibile (l’universale, linda fotografia di molto cinema francese contemporaneo, gli ambienti reali, il rifiuto di qualsiasi effetto). La fedeltà allo spirito chapliniano emerge anche nelle mirate modifiche alla vicenda reale che sono state approntate in fase di sceneggiatura. La moglie in ospedale, i due reietti dal cuore d’oro che si piegano al crimine solo a fin di bene, la petulante presenza di una bambina saccente: alla comica, al capitombolo e al rovesciamento dell’ordine, Chaplin ha sempre affiancato nel suo cinema un sincero e diretto sentimentalismo, ben legato alla “poesia degli ultimi” che s’incarna prima di tutto nella sagoma dondolante di Charlot.
“Vedi di non fare ancora il pagliaccio” dice il secondino che lascia uscire dal carcere Eddy, uno dei protagonisti, nella prima inquadratura del film. Detto fatto: ammaliato da una bella circense (Chiara Mastroianni), Eddy finisce sulla pista a fare il clown, dando voce finalmente al suo destino. Poiché nella realtà non è permesso fare il buffone irresponsabile e sognatore, tanto vale fuggire dal reale e regalare illusioni agli altri. Anche il lieto fine, enormemente lieto e inconcepibile, è dominato da un puro spirito chapliniano, pietistico e caritatevole.

Tuttavia l’operazione appare assai meno riuscita di quanto sembrerebbe a una prima occhiata. Più di tutto sembra che Beauvois abbia colto solo la scorza della poetica chapliniana, le categorie più superficiali e macroscopiche. Lo dimostra anche l’uso spropositato e fuori luogo del commento musicale, affidato a un pompieristico Michel Legrand che non fa presagire nulla di buono già sugli eccessivi titoli di testa. E’ il film di Beauvois con la presenza maggiore di musica a commento, e per ammissione dello stesso autore si è trattata di un’ulteriore scelta di fedeltà nei confronti del cinema di Chaplin. “Non puoi evocare il fantasma di Chaplin senza la musica. Ha giocato un ruolo troppo importante nei suoi film”, dice Beauvois. Ciò è innegabile, ed è altrettanto vero che spesso nei film di Chaplin la musica piegava al melodramma e alla sottolineatura lacrimosa. Ma nel caso di Beauvois si tratta di un’incoerenza marcata, secondo la quale la musica si trova più volte a enfatizzare sequenze che non la richiedono.

Nella coppia comica proposta da Beauvois, l’attore chiamato a rievocare più strettamente la figura di Chaplin è Benoit Poelvoorde, criminale con la testa tra le nuvole di cui non si conosceranno mai i trascorsi, ma è facile ipotizzare si tratti di un ladruncolo sfigato. Poelvoorde ha il physique du role, dallo sguardo vispo e sempre in movimento, ma sposa anche tonalità eccessivamente mielose e gigionesche. Di nuovo, la scorza di Chaplin: come Beauvois coglie tutta la superficie della poetica chapliniana, così il suo attore principale rievoca moine e smorfiette alla lunga eccessive e patetiche. Se omaggio profondo e commosso voleva essere, manca del tutto quel lancinante senso del tragico che ha sempre costituito il cupo rovescio anche delle migliori comiche e commedie chapliniane. In più, mettiamoci pure che Beauvois aderisce a un cinema impersonale, vagamente accademico, che non rischia nulla e, se vuol intonare tributi alla storia del cinema, lo fa con sviolinate melodrammatiche e tradizionalismo narrativo. Così, un autore che aveva anche dato qualche buona prova, lo ritroviamo stavolta adagiato in un pigro professionismo che dà vita a un prodotto ai limiti del godibile, ovvero gradevolmente consumabile, e poco di più.

Info
La scheda de Il prezzo della gloria sul sito della Biennale.
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