Intervista a Carlo Montanaro
Abbiamo incontrato Carlo Montanaro, tra gli organizzatori delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Oltre che del festival friulano, con lui abbiamo parlato della sua famosa collezione privata di film, del passaggio dalla pellicola al digitale e dell’Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema, da lui presieduta.
[La foto è di Paolo Jacob]
Partirei da una delle proiezioni più curiose di questa 33esima edizione delle Giornate, quella della versione tedesca della Corazzata Potemkin, sonorizzata in Germania nel 1930. Come la giudichi?
Carlo Montanaro: Abbastanza ridicola, con un sonoro appiccicaticcio, ma noi dobbiamo sempre guardare con gli occhi di chi c’era lì in quel momento storico. Io ad esempio non mi spiego mai, facendo Le Giornate del Cinema Muto e avendo queste emozioni continue, perché qui ci sono anche le orchestre e i pianisti che suonano dal vivo, non riesco a capire che cosa è accaduto nel ’27, nel ’28, quando hanno cacciato le orchestre e si sono accontentati di altoparlanti che funzionavano sicuramente malissimo. Il modernismo e l’idea di avere tutto dentro la pellicola, ha accontentato a quanto pare non solo i produttori e i gestori delle sale che in questo modo spendevano di meno, ma anche la gente. Mentre la musica dal vivo è di una qualità umana incomparabile, ci sei dentro insomma. È una performance, è l’evento. E una volta era così, ogni volta che andavi al cinema era un evento.
Sì, in tal senso è stato paradossale vedere il film d’apertura delle Giornate, When a Man Loves con John Barrymore, uno dei primi film con la colonna sonora registrata attraverso il Vitaphone, che terminava con l’orchestra che faceva l’inchino al pubblico.
Carlo Montanaro: Certo, è vero. Perché si sapeva che quello era un succedaneo. Poi, sarà vero o non sarà vero, facendo The Jazz Singer (1927) è venuto fuori che gli attori potevano parlare, ma è successo così, sembra casualmente. Perché l’idea iniziale del passaggio dal muto al sonoro era di aggiungere i rumori, cosa che qualche volta facevano qualche volta no, perché era molto complesso andare in sincrono. Ma soprattutto si voleva trasferire sullo schermo la musica, cioè sostituire l’orchestra stabile con la musica registrata.
A quell’epoca che tu sappia era una pratica diffusa questo passaggio, questa forma di muto sonorizzato come l’abbiamo visto in La corazzata Potemkin in tedesco? C’è qualche esempio in tal senso in Italia?
Carlo Montanaro: Sì, per esempio io ho una copia di Il figlio dello sceicco (1926) che è stato ridoppiato con i 24 fotogrammi al secondo. Il problema del ridicolo in cui cade anche il Potemkin è che in realtà la scansione della velocità del muto non era mai 24fps, era sempre un po’ meno e quindi, visto che il sonoro deve essere per forza a 24 fotogrammi al secondo, tutto risulta velocizzato. In realtà ci sono anche dei film muti che stranamente andavano a 24, ma questo accadeva proprio perché non c’era una regola diffusa. Anche noi qui alle Giornate, per sapere a che velocità andare, dovremmo sempre avere la musica originale. Quando hai la partitura innanzitutto è utile perché così riesci a sapere se il film è integrale o meno; se avanza della musica infatti vuol dire che qualche pezzo del film non c’è, e questo dovrebbe permetterti di poter fare una ricerca più filologica. Indipendentemente da questo poi è il tempo della musica che ti dice a che velocità vanno le scene, perché normalmente nella partitura del direttore d’orchestra c’erano i sincroni delle azioni. Serviva per dargli delle indicazioni, ad esempio per dire: attento, questo tema particolare è legato alla scena d’amore e non ad altro.
Quindi in cabina di proiezione la velocità come veniva stabilita?
Carlo Montanaro: Si consegnava un foglio macchina per il proiezionista e tutte le cabine dell’epoca del muto avevano un variatore di velocità, visto che la velocità non era mai stabile.
E per le comiche invece?
Carlo Montanaro: Quelle erano girate più veloci, lo sapevano benissimo. E difatti se tu vedi adesso le comiche, sono un pochino più esagerate perché magari vanno anche quelle a 24fps.
Quindi, per tornare ai film sonorizzati…
Carlo Montanaro: Sì, c’è una copia così anche di Maciste all’inferno (1926), ma la cosa che è durata di più in Italia, fino addirittura al dopoguerra, era Ridolini che veniva doppiato con la voce di Tino Scotti, che riusciva a parlare velocissimo, dunque riuscendo a tenere il ritmo dei 24 fotogrammi. È stata fatta all’epoca questa cosa di ripresentare i film muti applicandoci il sonoro, perché sennò andava buttata via un sacco di roba; era un modo per riportare quei film in sala. Era un momento ovviamente in cui sembrava che il cinema muto non servisse più a nessuno nell’impianto commerciale. Ma credo che questi siano stati tentativi che non hanno avuto molto seguito e non penso che in fin dei conti ne siano stati fatti così tanti.
Abbiamo già intervistato Livio Jacob, che ci ha raccontato come sono nate le Giornate del Cinema Muto e la Cineteca del Friuli. Vorremmo sapere invece tu come sei entrato in contatto con loro.
Carlo Montanaro: La prima sede del festival era quella di Cinemazero, sempre qui a Pordenone, come ti avrà detto Livio. Il secondo o il terzo anno delle Giornate, quindi nel 1983 o nel 1984, una sera tardi, verso mezzanotte si blocca tutto e non si capisce perché non si riparte. Allora sono andato in cabina e Livio mi guarda sconsolato e mi dice che i quattro proiettori per un motivo o per l’altro non funzionavano più. Sono sceso, ho preso la mia borsa in cui porto sempre un cercafase con il cacciavite, ho aperto i quattro proiettori e di quattro ne ho fatto uno e allora siamo andati avanti con la proiezione. E da quel momento sono diventato il direttore delle proiezioni [ride].
Davvero?
Carlo Montanaro: Beh, sì, è andata così. Son cose scioccherelle, ma pochi le sanno… Noi qui alle Giornate siamo diventati mitici per la qualità delle proiezioni: la qualità del frame che non tagliava, la velocità della proiezione, ecc. Quando in realtà queste sono cose di una banalità sconcertante, nel senso che per avere velocità diverse basta avere un variatore di velocità – ed esistevano -, oppure per avere il quadruccio, cioè la maschera larga senza il taglio della colonna sonora, in realtà basta usare il mascherino del Cinemascope magnetico, il 2:55. Sono cose così che però gli stessi cinetecari all’epoca non sapevano. C’è però una marcia in più, cioè serve che l’otturatore non abbia solo due pale, come ha per le macchine del cinema sonoro, ma deve averne tre perché altrimenti, abbassando la velocità, si vede il flicker, si vede il pulsare della luce. Con tre pale si riesce ad arrivare anche a fare delle proiezioni a 12fps. Con queste macchine che abbiamo qui a Pordenone possiamo andare da 12 fino a 40fps. Gli ultimi proiettori fatti – noi abbiamo sempre usato quelli di Cinemeccanica – hanno addirittura un variatore interno e quindi non ne serve più uno esterno. Quindi, sono piccoli trucchi, ma questa cosa ha lasciato tutti esterrefatti perché una tale cura nei confronti di queste copie non si era mai vista prima.
Come ci ha raccontato sempre Livio Jacob, le Giornate sono anche un importante luogo d’incontro per collezionisti privati, come te ad esempio. Quindi ti chiederei ora del tuo archivio personale di film. Come sei arrivato a questa collezione?
Carlo Montanaro: Io da grande volevo fare il regista. Anche se mi è sempre piaciuto smontare le cose e mi sono spesso tagliato le dita per questo. Ai tempi miei i giocattoli non erano di plastica e quindi ogni cosa che avevo in regalo, la smontavo e mi prendevo un sacco di botte perché spesso mi facevo male. Ho sempre avuto questa idea del dietro le quinte, del come funzionavano meccanicamente le cose. A maggior ragione, nel cinema mi sarebbe piaciuto stare dietro la macchina da presa. Mi accontentavo, quando era possibile, di stare dentro alle cabine di proiezione. Quindi ho imparato un po’ a proiettare, un po’ a riprendere. E nel momento in cui avrei potuto, dopo la laurea, dedicarmi a questa passione di fare il cinema, la sfiga è stata di arrivare nel momento in cui il cinema aveva una flessione. All’inizio degli anni Settanta, c’è la prima grande crisi, il primo decadere dell’elemento produttivo, e quindi sostanzialmente – pur avendo fatto tante cose nel cinema, l’aiuto-regista, l’organizzatore, ecc. – è successo che mi hanno chiesto di andare ad insegnare all’Accademia di Belle Arti a Venezia. Cosa che a me faceva un po’ ridere, questa idea di andare ad insegnare cinema. Ma erano solo quattro ore il sabato mattina, perciò mi son detto: perché no? E un po’ alla volta – visto che le altre opportunità nel frattempo erano finite – è cominciata questa nuova avventura, mi ha scelto lei, più che averla scelta io. E a quel punto però cosa bisognava fare? Come dovevo insegnare cinema? Parlando? Era così che si faceva in realtà, si parlava e basta senza far vedere nulla; questo, ad eccezione, di Luigi Chiarini che per l’università di Urbino aveva addirittura fatto le copie della Cineteca Nazionale, copie che sono ancora lì tra l’altro. All’epoca, a parte questa notevole eccezione, era praticamente impossibile organizzarsi con delle proiezioni, perché bisognava noleggiare i film nelle cineteche, bisognava noleggiare la sala, ecc. E allora io, che avevo già qualcosa in 8mm, ho cominciato a comprare, ma un po’ a caso. Poi, attraverso la conoscenza di una serie di persone, tra cui Angelo Homouda della Cineteca Griffith, ho cominciato a capire da chi potevo andare e mi sono messo a comprare i film in maniera più rigorosa. Nel momento in cui, tra gli altri, Livio Jacob ma anche Piero Colussi di Cinemazero partivano con Le Giornate, io ero già loro partner; ci conoscevamo già, visto che tutti noi compravamo film all’estero e quindi ci scambiavamo gli indirizzi, le informazioni, e così via. Tra queste cose, quelle che mi interessavano di più erano le questioni relative alla tecnica e alla fine ho scritto anche questo libro, che si chiama “Dall’argento al pixel, storia della tecnica”. Stando all’Accademia di Belle Arti, una volta che cominci a far vedere come nasce il linguaggio cinematografico, vai – anche storicamente – alla trasgressione, quindi all’avanguardia. Perciò una delle cose che conosco meglio e che posseggo di più è proprio l’avanguardia, da quando esiste. Non le ultimissime cose perché con il video finisci per perderti e hai anche difficoltà a reperire i materiali. Io mi fermo con i primi, con Bill Viola, con Gary Hill. Tra una cosa e l’altra, insomma, trovavo e mettevo via roba, fino ad avere un bel po’ di materiale. Perciò il passaggio che Brunetta ha definito in modo straordinario con il suo libro, “Il viaggio dell’icononauta”, io lo testimonio con oggetti miei. E, visto che l’arco narrativo che mi interessa raccontare, è la storia della riproduzione delle immagini, il mio archivio personale adesso l’ho chiamato “La fabbrica del vedere”.
Ma questo passaggio dal tuo archivio personale a un progetto più ampio, definito per l’appunto “La fabbrica del vedere”, non è ancora stato ufficializzato?
Carlo Montanaro: No, ancora no. Un po’ alla volta avevo riempito casa mia, perché non avrei mai pensato di lanciarmi in un’impresa come questa. È successo però che è morto un collezionista di Venezia, che aveva una casa unica e aveva una collezione abbastanza seria di macchine di vario genere, soprattutto il passo ridotto, ma anche lanterne magiche e cose simili. E io a lui, che aveva il cruccio di dire “chi gestirà questa roba? dove andrà a finire?”, non avevo mai pensato di dirgli: compro tutto io. Ma, durante il suo funerale, mentre ero con Laura Minici Zotti del Museo del Precinema di Padova, le ho detto: “Ma io posso vendere la mia casa a Burano e comprare la sua”. E così ho fatto. L’ho restaurata completamente e adesso sto svuotando una parte di casa mia per portare tutto quanto lì, e questa è la fase più delicata perché bisogna spostare la roba per l’ultima volta. Il museo che voglio fare avrà la qualifica di pubblico-privato. Nel senso che la Regione Veneto ha riconosciuto l’associazione, ma il luogo in cui potranno entrare visitatori sarà solo il piano terra. Poi ci sono altri due piani sopra, ma c’è il problema della sicurezza. Quindi al piano terra posso far entrare chi voglio e lì farò delle mostre, degli incontri, delle proiezioni, ecc. Ma c’è solo un video-proiettore, mentre sopra ho messo un proiettore in 8mm. e uno in 16mm. e lì è casa mia e posso far venire chi voglio. Cioè, non posso dire: è aperto. E la collezione l’ho chiamata Trevisan-Montanaro-D’Este, perché Trevisan era mio nonno ed è l’unico in famiglia che ha fatto i soldi…e io glieli sto mangiando… [ride] Mente D’Este è il collezionista da cui ho acquisito sia l’immobile che le cose che aveva. Il posto è a Venezia, vicino alla Ca’d’oro, un po’ defilato, ma comunque centralissimo.
Tornando alle Giornate, l’impressione che si ha all’esterno e che è anche testimoniata dalla storia del festival, è quella di una sostanziale continuità. Cioè le persone sono sempre le stesse e lavorano in pieno accordo. Una cosa veramente rara nel nostro sistema festivaliero, forse con l’unica eccezione rappresentata proprio dal Far East, sempre qui in Friuli. Come è stato possibile riuscirci, secondo te?
Carlo Montanaro: È la nostra forza, nel senso che ognuno di noi fa qualcos’altro. Io insegnavo, poi sono diventato direttore dell’Accademia, Piero Colussi di Cinemazero è stato consigliere regionale e adesso ha la Villa Manin, David Robinson vive a Londra, Paolo Cherchi Usai vive fra Milano e Rochester, ecc. La forza è stata che non siamo compressi in una molecola e quindi ci ritroviamo tre/quattro volte all’anno su dei filoni d’indagine che stanno a cuore a ciascuno di noi, visto che siamo più o meno esperti di cose differenti e ognuno di noi ha delle passioni diverse. E queste cose vanno a convogliarsi con la capacità di David Robinson che attualmente non scrive più, perché anche lui è in pensione e penso che ora faccia solo Le Giornate del Cinema Muto, salvo quando va a giurie di festival e cose simili. Però David ha creato in tutti questi anni una specie di rete di collaboratori, gente che gli segnala dei film, e dopo un po’, da una massa informe, verso primavera, l’imbuto si chiude e vengon fuori i temi che sono stati verificati magari sull’esistenza delle copie, sui progetti di restauro e su delle cose così. Tanti poi ci chiedono: quanto volete andare avanti, quanto cinema muto c’è ancora? Beh, basta parlare del Potemkin sonoro. Un film di cui si trovano i dischi sincronizzati del 1930 va ovviamente rivisto. E quindi, anche nella storia di un singolo film, prima per esempio c’erano solo le copie in bianco e nero che spesso non erano restauri ma semplicemente dei controtipi, poi c’era la versione restaurata, poi magari si è trovata anche la copia colorata, visto che il colore cominciava a costare meno e quindi ogni film andava rivisto nella copia colorata… e via di questo passo. Diciamo che il cinema muto sembra qualcosa di stabile, ma in realtà è un magma, un qualcosa in continuo e perpetuo movimento; ci sono ritrovamenti continui, colpi di fortuna… Ricordo in proposito l’esempio della cittadina che era stata costruita per La febbre dell’oro di Charlie Chaplin e che, in seguito, era andata distrutta. Tanti anni dopo, quelli della Fox, che è la proprietaria del film, hanno ritrovato l’impiantito del saloon: c’era una botola, sono andati dentro e lì hanno ritrovato una serie di pizze che si ritenevano perdute, questo perché il magazzino della Fox è stato uno dei pochi ad essersi completamente distrutto negli anni Trenta. E infatti, quando abbiamo fatto la retrospettiva Fox, prima ancora di questo ritrovamento, era stato uno sforzo enorme perché avevamo dovuto ritrovare le copie un po’ di qua e un po’ di là. Ma basta un ritrovamento di questo tipo, ad esempio, che ti trovi a poter riempire per intero la filmografia di un regista che altrimenti era data per persa. Diciamo che è un po’ il gioco delle ciliegie: parti da una cosa, ne arrivi a un’altra, poi ne arrivi a un’altra ancora…quindi verifichi se tutto quanto sta funzionando e, se per caso c’è qualche intoppo, ti fermi perché chiaramente la rete delle Giornate non è ridotta a tre progetti all’anno. Ne camminano altri, che magari vengono rimandati all’anno dopo e che hanno già una loro impostazione. Quindi io credo, se posso essere orgoglioso, al di là del gruppo che è abbastanza omogeneo come si vede anche all’esterno, che è proprio il festival che, parlando del cinema del passato, ha dei progetti molto omogenei e sempre piuttosto esaustivi. Se leggi i nostri cataloghi infatti sono abbastanza completi. Tanto che quest’anno mi veniva in mente di prendere tutte le schedine dei cataloghi e fare una storia del cinema muto, semplicemente riproponendo tutto quello che è stato scritto nel corso degli anni. In maniera forse banale e romantica, quel che ti posso dire è che dietro a tutto questo c’è una cosa strana che si chiama amore; è la passione di ciascuno di noi che diventa qualcos’altro ed è forse questo che ci collega, che ci fa continuare a lavorare insieme, ovviamente con alti e bassi, ci sono anche delle discussioni, però sostanzialmente, sì, il gruppo è rimasto omogeneo.
Cosa ne pensi della selezione che guarda al passato fatta da certi festival, con i film scelti in base a cosa c’è di nuovo, di appena restaurato?
Carlo Montanaro: È difficile entrare nelle teste degli altri, posso dire però indirettamente che io ho una paura folle del digitale. Non solo perché tecnicamente lo vedi – direi sempre meno in realtà, perché ogni anno la qualità di quello che viene proiettato è sempre leggermente superiore o forse sono io che sto invecchiando e i miei occhi sono sempre meno svegli – e quindi si vede sempre un po’ meno la differenza. Quando vedo una pellicola ci metto una mano sul fuoco che è pellicola, quando vedo una cosa in digitale comincio ad avere qualche problema a riconoscerlo se è digitale o è pellicola. Al di là di questo, però, la domanda è: quanto dura? Cosa vuol dire aver fatto questo restauro digitale? Quello che ho in mano è un film o no? Ma la corsa al restauro digitale ha una sua logica precisa, che a suo modo va benissimo. E questo discorso va legato ovviamente a quello della flessione delle sale. Pensa, per esempio, alle videocassette: il 70% di quello che finiva su VHS, soprattutto in Italia – perché altrove c’era più cura – era soprattutto robaccia, erano delle brutte copie. Invece, l’avvento prima di una fase che non abbiamo vissuto – e che era quella del laser disc – e poi del DVD, ha portato quasi alla necessità del restauro digitale, perché è richiesto proprio dal tipo di formato. Quindi la visibilità del restauro è quella di dire: venite a vedere su grande schermo che poi vi portate a casa il DVD del film che avete appena visto restaurato. E questa è una logica diversa rispetto alla nostra, perché noi delle Giornate puntiamo ancora all’evento, alla copia unica…infatti non è che il Ben-Hur a colori che abbiamo fatto qua poi li vendiamo in DVD. No, non c’è. O vieni qui o segui un sito dedicato a queste cose che è Photoplay e vai a vedertelo dove c’è. Se invece vai a vedere Venezia Classici, aspetti un momento perché sai che probabilmente la Sony o chi per lei, una ditta qualsiasi, ti vende il DVD. Ed ecco che c’è un indotto che salva un po’ il cinema, perché non dimentichiamoci che forse il 50% del cinema che c’è in giro è su internet. Salvo il fatto che poi chi si vede i film piratati in condizioni di visione pessime, se viene indotto ad un certo punto ad andare al cinema e scopre che, quello che ha visto piccolo così, al cinema lo vedrà meglio, forse si convince a preferire il grande schermo al pc. Quindi, se vuoi fare il film Columbia, che so a Venezia, è probabile che la Columbia ti dica: sì, però, ne fai anche una copia per l’home video. È una mia illazione, ma ho paura che sia così che vada.
L’Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema, che è stata fondata da Davide Turconi e che nel 2014 compie cinquanta anni, è attualmente presieduta da te. Come è andata questa storia?
Carlo Montanaro: Sì, tutti noi abbiamo avuto un grande padre, che per l’appunto si chiamava Davide Turconi. Lui era un bibliotecario di Pavia che, attraverso contatti con l’America, aveva cominciato a comprare riviste di cinema, fotografie, ecc. E quindi sapeva un sacco di cose senza poterle contestualmente verificare. Questa sua conoscenza l’ha portato in collegamento con tutta una serie di personaggi che studiavano cinema, anche se allora era tutto un po’ casuale. C’era ad esempio il mito di Francesco Pasinetti che fa la storia del cinema negli anni Trenta e, al di là di quella, non è che in Italia siano venuti fuori chissà quali altri contributi in quegli anni. Tutto questo porta Turconi, quasi naturalmente, alla Mostra del Cinema dove c’è addirittura l’idea di fare la mostra del periodico cinematografico con una persona che è stato un po’ il mio maestro, vale a dire Camillo Bassotto. Queste persone cominciano a lavorare insieme e, dai discorsi fatti anche con Luigi Chiarini, padre nobile di tanto cinema, ad un certo punto viene l’idea: perché non riuniamo gli storici per cominciare a fare la storia del cinema? Ed ecco che alla Mostra del cinema, nel 1964, mentre in quel momento si proiettava Une femme mariée di Jean-Luc Godard, sono andate dal notaio dieci, dodici persone ed è nata questa avventura. L’associazione poi ha fatto nascere una rivista che si chiama “Immagine. Note di storia del cinema”, che è già giunta alla quarta/quinta serie, si è fermata, è ripartita, ecc., questo perché abbiamo avuto degli alti e dei bassi… Comunque sono tre, quattro anni che, con la partecipazione della Direzione Generale del Cinema, siamo ripartiti e stiamo faticosamente facendoci conoscere perché c’è stato un periodo in cui l’associazione pareva essere morta. E quindi stiamo cominciando a fare una serie di iniziative, come quella alla Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno in cui abbiamo proiettato l’Arlecchino di Giuliano Montaldo (1983) in HDTV, il primo film in cui in qualche modo si è pensato che i mezzi televisivi potessero servire da succedaneo del cinema o aiutare il cinema a fare le cose più in fretta, un’iniziativa che, pur fallendo, ha indicato comunque una strada che, anche tecnologicamente, ha portato al digitale di oggi. Adesso io sarò il 6 e il 7 novembre a Roma, alla Sala Trevi a fare due giornate, partendo da Il mistero di Oberwald di Antonioni che era una registrazione video-magnetica Ampex trasferita in pellicola, per arrivare fino a Nirvana di Gabriele Salvatores che è il primo film italiano in cui c’è stato il primo intervento massiccio della digitalizzazione.