Le challat de Tunis

Le challat de Tunis

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La regista tunisina Kaouther Ben Hania volge con ironia e originalità il drammatico tema della violenza alle donne, realizzando uno spiazzante mockumentary: Le Challat de Tunis, premiato come miglior lungometraggio alla 25esima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina.

Siamo donne

Tunisi, estate 2003. Un motociclista, armato di rasoio, si aggira per le strade della città sfregiando le natiche delle donne che passeggiano. Lo chiamano Challat, “lametta”. Da un quartiere all’altro, da un caffè all’altro, circolano su di lui le storie più improbabili. Tutti ne parlano ma nessuno l’ha mai visto. Dieci anni più tardi, dopo la rivoluzione, quando la verità sembra a portata di mano, una regista testarda vuole a tutti i costi svelare il suo mistero. Con ironia e humour, il film mette in scena la leggenda metropolitana e con essa i conflitti di genere nella società tunisina. [sinossi]

Presentato nella sezione ACID della scorsa edizione del Festival di Cannes, Le Challat de Tunis di Kaouther Ben Hania è approdato sugli schermi milanesi grazie al FCAAAL divertendo e coinvolgendo la platea. L’opera prima della regista tunisina cattura per la forma adottata nel tematizzare la violenza sulle donne: il mockumentary, ed è proprio questo uno degli elementi che ha portato la giuria a premiarlo come Miglior Film Africano.
Nei primissimi secondi ascoltiamo le notizie del tg in cui si annuncia che lo Challat ha colpito ancora e, subito dopo, lo vediamo in azione: arriva in moto mentre, fulmineo, attacca alle spalle delle donne, che realizzano di aver ricevuto una rasoiata solo dopo la fitta al fondoschiena. Detta in questi termini – e se non si sapesse di che tipo di pellicola si tratta – si potrebbe pensare di trovarsi ad assistere a un poliziesco.
Ma la comparsa della regista che mette in scena il suo falso documentario, proponendosi col suo assistente come studentessa di cinema, ci riporta al fulcro de Le Challat de Tunis.

Equilibrando perfettamente fiction e documentario, Ben Hania indaga – come se fosse un’inchiesta – su chi sia lo Challat, il cui significato è insito nella cultura araba e vuol dire: “lasciare un marchio su qualcuno”. Quando perciò viene indetto un casting per riuscire a trovare il vero Challat, si intuisce presto che il film, oltre a costruire una sottile ironia sulle dinamiche che vengono immancabilmente create dai media, intende anche far emergere sapientemente alcuni aspetti insiti nell’animo virile: maschilismo ed egocentrismo, in primis.
All’audizione si presenta Jallel (Jallel Dridi), pronto a farsi valere sugli altri pretendenti adducendo prove che confermino il suo essere lo Challat ed è incredibile come, con naturalezza, la regista ci porti a riflettere sul desiderio di fama. Jallel non prova vergogna, vuole prendersi ciò che è suo, smascherando i fantomatici Challat, per il gusto di avere addosso l’obiettivo della videocamera. Inizia, infatti, un pedinamento del ragazzo con la scusa di indagarne la vita e, in particolare la relazione con le donne, compresa sua madre, così da poterne comprendere i comportamenti.
Ma Le Challat de Tunis riflette anche sul ruolo delle donne sia intervistando direttamente le vittime, sia attraverso le dichiarazioni degli uomini interpellati sull’argomento («le ragazze devono vestirsi in modo rispettoso») attraverso cui emerge la triste concezione e condizione della donna in certe parti del mondo arabo. Con delicatezza, tatto e umorismo pungente il film di Ben Hania gioca con gli stereotipi e ancor più con gli schemi e i dettami di una religione che, per alcuni (non vogliamo generalizzare), sfocia in fondamentalismo.

Estremamente significativa è, tra l’altro, la soluzione del videogioco ispirato allo Challat, un filo che percorre tutto il lungometraggio fino a un atto di protesta proprio da parte di una donna e che esplicita, sempre usando l’arma dell’ironia mai blasfema, un discorso sulle regole sociali, culturali e religiose (tra tutte: lo Challat non può colpire una donna col velo, pena: perdita di punti).
Ne Le Challat de Tunis compaiono inoltre altre soluzioni spiritose – tra cui un’invenzione creata paradossalmente da una donna – tutte volte a mettere a nudo logiche che incastonano la figura femminile in un’immagine ben definita che la vorrebbe costringere in una posizione troppo spesso di subordinazione e, come uno schiaffo, arriva la frase di un’intervistata: «Ti fanno rimpiangere di aver sporto denuncia» – e queste parole, ci duole dirlo, non sono così sconosciute alle nostre orecchie per quanto le società siano diverse.
Per citare perciò la motivazione della giuria che ha consegnato a Le challat de Tunis il premio come miglior lungometraggio africano alla 25esima edizione del FCAAL, grazie «alla sua grande ironia e alla capacità di far riflettere sulla condizione delle donne nel mondo arabo, sulle violenze e sui pregiudizi di cui sono vittime» e «alla capacità di essere un cinema sul cinema, in una maniera che è insieme assolutamente credibile e profonda», il film si fa portavoce di uno sguardo femminile sulle donne in un mondo che spesso si dimentica del loro diritto alla parità di genere.

Info:
La scheda di Le challat de Tunis sul sito del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina
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