A Pesaro, tra maree e lunghezze d’onda

A Pesaro, tra maree e lunghezze d’onda

Pesaro 2015 si è dimostrata una mostra di moli, maree, lunghezze d’onda, squali. Ha utilizzato come zattere per navigare tavole rotonde, preferendole a tappeti rossi, divi più o meno supposti, desertificazioni del pensiero. Per uno sguardo dialettico sul cinema.

Giulio Perticari, forlivese di Savignano sul Rubicone (come l’anarchico Mario Buda che attentò alla Borsa Valori di Wall Street, Carlo Brighi detto Zaclèn, che inventò la musica popolare romagnola, e Secondo Casadei, che diede vita all’arcinota orchestra di liscio), non è molto noto per le sue doti poetiche, per quanto esse fossero apprezzate da Stendhal, che lo riteneva “il primo dei letterati italiani”. Trasferitosi dalla natia Romagna all’ex ducato di Pesaro, annesso a sua volta allo Stato Pontificio, Perticari scrisse: “Questa Pesaro nata rozza e povera colle genti pelasghe, é poi stata dal tempo e dagli artefici arricchita, ordinata, ripiena di begli edifizi, e condotta in questa civiltà che veggiamo.”. Era un carbonaro, Perticari, con vaghe idee repubblicane – mescolate a un intellettualismo patrizio con cui esse cozzavano, e non poco –, ma morì decenni prima che i vari frammenti che formavano la penisola italiana si unissero.
La Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro nacque quasi centocinquant’anni dopo la morte di questo patriottico rappresentante dell’Accademia dell’Arcadia, in un’epoca in cui il PCI governava la cittadina adriatica senza ostacolo alcuno (il sindaco che partecipò alla nascita della Mostra era Giorgio De Sabbata, già partigiano della Brigata Garibaldi e futuro senatore della Repubblica). Nei cinquant’anni di vita della Mostra, Pesaro è andata via via modificandosi, ma ancor più è mutato il palcoscenico festivaliero internazionale. Dall’esperienza di Pesaro, partorita da Lino Micciché e Bruno Torri e certificata da Pier Paolo Pasolini, germinarono in giro per l’Europa le realtà più disparate, luoghi in cui il cinema veniva discusso, e si cercava sempre uno spazio al “nuovo”.

Già. Il “nuovo”. Un termine con cui è difficile scendere a patti, e che rischia con troppa semplicità di essere svilito, modellato a propria immagine e somiglianza. Cos’è a ben vedere il nuovo? E come si fa ad accettarlo – e riconoscerlo – se non si è sempre ancorati al già esistito, e all’esistente?
In un microcosmo battagliero e spesso fratricida come quello del cinema pensato, programmato, criticato, la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro è diventata oggetto di una discussione che spesso ha travalicato i confini esili della pura e semplice bagarre. Il cambio di direzione della Mostra, voluto (e mal gestito) dal sindaco renziano Matteo Ricci, che ha visto Giovanni Spagnoletti lasciare la carica dopo quindici anni, sostituito da Pedro Armocida (che a Pesato lavorava con diversa mansione dal 2000) dopo il rischio ventilato di veder assegnare il festival a Luca Zingaretti, ha smosso le acque mai particolarmente tranquille degli addetti ai lavori. Che, come d’abitudine, hanno semplicemente scelto da che parte stare. O questa o quella barricata. In un’epoca in cui muoversi nel dubbio evitando le certezze statuarie sembra sempre meno di moda, non certo una novità.
La Pesaro di Pedro Armocida poteva anche apparire un azzardo, e nel migliore dei casi si trattava inevitabilmente di una scommessa. In pochi, in questi mesi, hanno puntato l’accento sul fatto che si fosse comunque evitata la vituperata (bipartisan) trasformazione della Mostra in una kermesse di documentari, come sarebbe stato nelle mani di Zingaretti.

La settimana del MINC – per fermarsi agli acronimi –, con quel 50+1 a dominare i cartelloni, ha dimostrato che si può tentare una strada uguale e diversa per trovare nuove traiettorie ai festival. In un’epoca di crisi economica, in cui i valori di unità su cui avrebbe dovuto sorreggersi l’Europa vacillano mostrando crepe celate finora agli occhi meno attenti, come può un evento come Pesaro dimostrare ancora la propria urgenza? Ripartendo dalla discussione, dal dibattito e, non è neanche il caso di sottolinearlo, dal cinema. Ma anche costruendo un percorso da far seguire agli abitanti della città.
Chi ha avuto in sorte di prendere parte, per qualche giorno o per l’intero periodo, a Pesaro 2015, ha percepito nell’aria qualcosa che sempre più di rado è possibile avvertire nel tonitruante universo dei festival italiani e internazionali. Un’atmosfera difficile da descrivere. Quella delle tavole rotonde mattutine alla Pescheria – Centro Arti Visive, dove si è discusso del ruolo dei festival, della critica, del cinema “giovane” italiano, dell’eredità di Pier Paolo Pasolini, ma che ha accolto anche gli incontri con Tayfun Pirselimoğlu e Paul Vecchiali. Quella delle proiezioni pomeridiane al Teatro Sperimentale, e serali in piazza del Popolo. Quella degli incontri ai tavolini dei bar, magari sorseggiando una moretta, con registi, critici, produttori. Tutti alla mercé del mondo, una volta tanto. Non rinchiusi nei bozzoli (im)perfetti interdetti all’esterno. Non protetti. Non isolati. Mentre troppo spesso il cinema si reclude volontariamente in una torre (che si vorrebbe) dorata, come se tutto ciò che gli gravita intorno portasse scorie, virus, epidemie intellettuali, Pesaro ha dimostrato, come altre realtà (che nulla, per fortuna, è mai unico), di percorrere una strada differente. Migliore o peggiore, è un giudizio secondario.

Tra un Pasolini e una memoria siriana (La dolce Siria di Ammar Al Beik), verifiche incerte sulla storia del cinema e le notti bianche di Paul Vecchiali – già visto lo scorso anno a Locarno – Pesaro si è dimostrata una mostra di moli, maree, lunghezze d’onda, squali. Ha utilizzato come zattere per navigare tavole rotonde, preferendole a tappeti rossi, divi più o meno supposti, desertificazioni del pensiero. Scegliendo una via diversa. Tutto in fieri, tutto (ir)replicabile, tutto sottoposto a un lavoro continuo. Una mostra che è sembrata consapevole della fragilità su cui si regge l’intero sistema-cinema (e, in realtà, l’intero sistema-cultura), e ha scelto di smarcarsi attraverso un free-form inatteso e stordente. I super-8 di Philippe Cote (con tanto di fuoriprogramma clandestino goduto addentando le sfogliatelle portate da Alessandro Scippa), Jaap Pieter, Livio Colombo e Giulia Vallicelli, e Helga Fanderl; i film sperduti, ritrovati, già visti/mai visti degli esordienti italiani; i film del concorso, alla ricerca non sempre possibile del “nuovo”; le lunghezze d’onda scagliate da Rinaldo Censi contro il muro di Palazzo Gradari, da Etienne-Jules Marey a Michael Snow che rifà Michael Snow; Anthony Ettorre che gioca con Musica per bambini e Simone Arcagni con Komplex.
Un bombardamento di idee, istanze, ipotesi a volte tra di loro persino contraddittorie, ma proprio per questo ancor più interessanti. A tratti sembrava di essere tornati a Il vento del cinema, miracoloso atto di resistenza cinematografica istituito sull’isola di Procida nei primi anni Duemila da Enrico Ghezzi, dove il cinema perdeva qualsiasi confine per farsi argine e confine a sua volta, terra non più di conquista ma di accoglienza. Di scambio dialettico, anche riottoso o non pacificato, se necessario. Ma dialettico. L’aria che si respirava a Pesaro non era poi così diversa.

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