Marguerite

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Dopo Superstar, presentato a Venezia 2012, Xavier Giannoli torna in concorso in laguna con Marguerite, tragicommedia d’epoca con protagonista Catherine Frot. Consueti spunti paradossali, ma secondo un’idea di cinema iper-tradizionale e poco stimolante.

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Nella Francia degli anni Venti, la baronessa Marguerite Dumont ama la musica classica e adora esibirsi nel canto lirico. Peccato che canti malissimo e che nessuno abbia il coraggio di farglielo notare. La compiacenza di marito, maggiordomo, amici e conoscenti, mossi da diversi intenti, la spingono fino a un’incredibile esibizione pubblica… [sinossi]

Tra il racconto di Superstar, presentato da Xavier Giannoli in concorso a Venezia tre anni fa, e quello di Marguerite, c’è una distanza di circa ottant’anni. Superstar narrava l’attuale deriva dell’immagine umana nell’era della sua riproducibilità e diffusione praticamente in tempo reale, grazie alle risorse del mondo parallelo (e inclusivo) garantito dal digitale. Marguerite retrocede agli anni Venti, con prevedibile ricchezza di scenografie, costumi e luci funzionali, per una commedia d’epoca dai toni operettistici. Si direbbe due film agli antipodi, accomunati soltanto dall’adesione alla commedia amara/tragica. Tuttavia, Giannoli palesa in entrambi i casi il desiderio di riflettere su contesti mediali in trasformazione e sulle relative ricadute sull’essere umano, collocato in un orizzonte di paradossi che mettono in discussione la sua integrità e il concetto stesso di vedere, riprodurre, giudicare e interpretare.
In Superstar Kad Merad si trasformava in idolo mediatico senza alcun motivo specifico, grazie alla semplice diffusione virale di video che lo ritraggono. In Marguerite l’illusione è pertinente al profilo psicologico della stessa protagonista, desiderosa di esibirsi nel canto lirico malgrado le sue limitatissime doti vocali. Marguerite non vede se stessa, e chi la circonda la tiene prigioniera dell’immagine da lei desiderata, per paura, vigliaccheria, ipocrisia, pietà, tornaconto o quant’altro.
Di più: il contesto mediale degli anni Venti, in cui Marguerite trova le sue radici più profonde, si arricchisce di nuovi dispositivi di cattura e riproduzione della realtà (il grammofono, la fotografia, il cinema, accanto all’antica idea di esibizione canora), per cui Giannoli sembra spostare la riflessione di Superstar ai suoi primitivi esordi, quando l’integrità dell’essere umano si avviava a una progressiva disintegrazione dentro a nuovi canali riproduttivi. Uno strumento per la voce, uno per il corpo, uno per voce e corpo insieme. Il cinema. Non solo tali apparati di cattura della realtà smaterializzano l’uomo, ma permettono anche ricostruzioni arbitrarie d’identità. Per cui ognuno di noi si trasforma in opera d’arte, in un gioco di feroce (auto)illusione.

La struttura narrativa di Marguerite si sorregge su un azzeccato paradosso (ispirato, pare, a una vicenda realmente accaduta negli anni Quaranta): la baronessa Marguerite Dumont, sposata senza più passione a un nobile spiantato, adora la musica classica e ama esibirsi nel canto lirico per un pubblico limitato. Destinato a rimanere limitato poiché Marguerite non ha alcuna dote vocale, e solo un gruppo ristretto di amici e conoscenti può assistere alle sue esibizioni nascondendosi dietro alla cortese ipocrisia. In pratica, nessuno ha mai avuto il coraggio di dire alla donna che canta malissimo, a cominciare dal marito, che prova per lei un misto di pietà e repulsione. Né tantomeno c’è riuscito il fedele maggiordomo di colore, che adora anzi la sua padrona e fa di tutto per costruirle attorno il mito da lei tanto desiderato. A poco a poco la generale compiacenza di tutti spinge Marguerite a un’imprevedibile ascesa, fino a una vera (e fatale) esibizione pubblica.
Più di ogni altra cosa, a Giannoli riesce bene il racconto di tale tormentosa e paradossale mediocrità, in cui la passione per l’arte si scontra con una tragica mancanza di talento. Lo sguardo dell’autore si mantiene divertito e partecipe, raggiungendo un buon punto di fusione tra comico e patetico, tra umorismo e pietà. Tuttavia, lo spunto narrativo si rivela fin troppo esile per un film che sfora le due ore di durata, e benché la riflessione a monte si conservi intelligente, essa è affidata a un linguaggio cinematografico davvero poco inventivo, del tutto adagiato nell’elegante confezione francese di alta industria.

È una tendenza che nel cinema transalpino di largo consumo inizia a farsi persistente (già ne avemmo varie testimonianze nella sezione-concorso della scorsa edizione veneziana): una sorta di rifondato “cinéma de papa”, che fa dell’eleganza di messinscena, delle buone prove attoriali e del linguaggio trasparente i suoi elementi fondanti. Giannoli non rischia niente, non cerca mai di far passare la propria riflessione mediale tramite gli specifici strumenti del cinema, bensì ricorre alla pura e semplice declamazione. Marguerite è un prodotto vagamente dignitoso da largo mercato medio-borghese, che forse troverà un suo pubblico sensibile alle toilette, alle arie e ariette intonate, alla brillantezza dell’insieme. Niente di male in questo, senonché non ci aspetteremmo questa invasione di neo-convenzione francese in concorso a un festival internazionale.
Oltretutto, Giannoli mostra di non padroneggiare saldamente la propria materia narrativa, disperdendo buona parte delle credenziali raccolte nella prima parte in una conclusione inutilmente prolissa e punteggiata di debolissime svolte narrative (gli ultimi venti minuti avrebbero avuto bisogno di una decisa sfrondata). E l’approccio alle pur corpose questioni sollevate resta del tutto superficiale, in un’esibizione fine a se stessa, compiaciuta sull’oggetto, di ingegnerie d’epoca, tra grammofoni utilizzati a scopi psichiatrici, lastre di fotografie, ombre cinesi e spettacoli cinematografici d’epoca.
Peccato, perché Catherine Frot è brava come sempre (Coppa Volpi per lei?), e perché Xavier Giannoli mostra una certa sapienza nell’imbastire paradossi narrativi di risonanza universale. Manca purtroppo un’idea forte di regia, manca la voglia di un cinema più spericolato e stimolante. Risulta davvero strano recepire un cinema tanto vecchio, risaputo e paludato da un autore poco più che quarantatreenne. Ma d’altra parte viviamo in un’Europa per vecchi.

Info
Il trailer originale di Marguerite.
Marguerite sul sito della Mostra del Cinema di Venezia.
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