The Bad Batch

The Bad Batch

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Opera seconda di Ana Lily Amirpour, in concorso a Venezia 73, The Bad Batch è un’interessante operazione sull’America marginale, sui reietti della società, su un mondo da far west dove vige la legge del più forte. Ma scade, e si esaurisce, nella vuota ricerca estetica, peraltro con un immaginario abbastanza povero e comunque già visto.

Come sono buoni i bianchi

Una feroce fiaba distopica ambientata in una desolata regione del Texas in cui alcuni reietti della società cercano di sopravvivere. Tra questi Arlen, una ragazza che finisce nelle mani di una banda di cannibali. [sinossi]

Lasciate ogni speranza voi ch’entrate. Davanti ai confini con un girone infernale si trova Arlen, ragazza dai pantaloncini appariscenti, un cartello che mette in guardia che oltre quel confine non si è più nel territorio del Texas e conclude con un laconico “buona fortuna”. Arlen è come Alice davanti a uno specchio che porta in un mondo lasciato a se stesso, a una terra di nessuno, a un far west dove vige la legge del più forte, della sopravvivenza, dove l’uomo mangia l’uomo. Dove la fame può spingere a mangiare corvi fatti arrostire in un falò usando banconote come combustibile. Anche il dollaro, su cui si fonda la società americana, perde il suo valore. Non c’è spazio per i sentimenti e anche il coniglietto da compagnia viene presto messo allo spiedo. Tra baraccopoli che spuntano nel deserto, container pieni di crepe, lamiere, rottami d’aereo. Tutto sembra realizzato in The Bad Batch, presentato in concorso a Venezia 73, come un patchwork di rifiuti.

Come viene spiegato con una metafora scatologica, come gli escrementi vengono subito asportati, portati lontano dalle nostre case e fatti confluire nelle fognature, così questa è la fogna degli Usa, l’altra faccia del sogno americano, lo sporco che deve essere occultato sotto il tappeto affinché tutto possa sembrare pulito. Il confino dei reietti, degli scarti nella latrina del paese. E in questa comunità dedita al cannibalismo in cui va a finire Arlen, i membri sembrano anche più crudeli della famiglia Marble di Pink Flamingos.
Amputano parti del corpo delle loro vittime in modo da poterli mantenere ancora come un serbatoio di carne. Tutto avviene con naturalezza, sbrigativamente. Arlen tornerà cinque mesi dopo, menomata, stavolta con calzoncini gialli decorati da uno smile, a cercare vendetta contro i suoi carnefici. La vediamo in una scena specchiarsi aggiungendosi arti ritagliati da fotografie di immagini femminili da una rivista, sognando così di rigenerare le sue parti del corpo mancanti. Un po’ sembra l’operazione della regista stessa, l’iraniana Ana Lily Amirpour (A Girl Walks Home Alone at Night era stato il suo esordio), che sopperisce alla sua carenza creativa attingendo a man bassa da un repertorio cinematografico precotto e preconfezionato.

Nella cloaca dell’America si vive anche con i rifiuti del tempo di una società dall’elevato tasso d’obsolescenza, un mondo che vive ancora con i feticci degli anni Ottanta, il cubo di Rubik, le canzoni dei Culture Club o degli Ace of Base. Ma è il cinema stesso di Ana Lily Amirpour che affoga nei suoi feticci citazionisti. E i Mad Max, e i Ritorno al futuro, e Dal tramonto all’alba, e i western, e All’inseguimento della pietra verde, e La storia fantastica. E le scritte subliminali con l’inevitabile richiamo a Essi vivono. Peccato che in quel film di Carpenter bisognasse indossare degli occhiali speciali per poterle vedere. Per Amirpour tutto è invece diretto, esplicito, immediato, senza bisogno di filtri. The Bad Batch ha un’estetica da videoclip vintage, con feste psichedeliche, stelle, galassie e nebulose, sdoppiamenti, sovrimpressioni. E un grande totem con le sembianze di una radio/stereo con tanto di sportellino per la cassetta. L’impressione è che per la regista tutto sia un pretesto per materializzare le sue illustrazioni, che comunque denotano un immaginario visivo post-apocalittico vuoto e semplicistico.

Info
La scheda di The Bad Blatch sul sito della Mostra del Cinema di Venezia.
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