Daguerrotype

Daguerrotype

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Presentato nella sezione Onde del Torino Film Festival, Daguerrotype segna l’approdo francese di Kiyoshi Kurosawa. Una nuova ghost story per il regista nipponico, calata nel contesto europeo con cui si deve misurare; ma ancora una volta i fantasmi di Kurosawa ci parlano della vita, dell’assenza e del lutto e dell’anelito all’immortalità.

Storia di fantasmi europei

Dopo la scomparsa dell’amata moglie, il celebre fotografo Stéphane ha cercato di colmare il vuoto realizzando dagherrotipi a grandezza naturale che sembrano quasi avere il dono di trattenere parte del soggetto. Quando l’acerbo Jean ne diventa l’assistente, si trova coinvolto nelle ossessioni di Stéphane e si innamora, ricambiato, di sua figlia Marie, la principale modella delle fotografie. Per vivere il loro amore, però, i due ragazzi dovranno evadere da quel mondo di immagini dalla sorprendente forza vitale… [sinossi]

Ogni cultura ha i propri fantasmi. In Giappone questi compaiono nei racconti del genere kaidan, raccolti da Lafcadio Hearn, nel teatro Nō e nel cinema j-horror. Sono in genere spiriti in cerca di vendetta. In occidente i fantasmi si manifestano spesso in letteratura, dal padre di Amleto al romanzo gotico, agli spettri nei manieri scozzesi. I fantasmi nel cinema di Kiyoshi Kurosawa sono sempre più concreti, reali, immanenti. Fanno parte della vita e servono a far uscire i rimpianti dell’esistenza, i rimorsi, i bilanci, esprimere il congedo dalla vita e dalle persone che ci hanno accompagnato nella nostra esistenza sulla terra. Esemplare in questo senso il precedente Journey to the Shore, storia di un uomo morto da tre anni che torna in vita per salutare tutti i suoi amici.

Con Daguerrotype Kurosawa approda in Francia, a Parigi. È una Parigi anonima, di periferia quella dove ci conduce il protagonista, il giovane Jean. Scende da un treno SNCF, passa per una zona sventrata, sede di un immenso cantiere, per giungere in una villa dal gusto retrò, dimenticata dal tempo, residuo architettonico di un mondo perduto, ultimo baluardo che resiste all’avanzata del cemento. Una dimora dalle grandi scalinate, colonne, stucchi, sculture, quadri, con un giardino e un’ampia serra. Un lembo di letteratura gotica. Un maniero infestato dagli spettri, il castello di un mad doctor, dove strane folate di vento aprono le porte scricchiolando. Dove una signora, dal vestito d’epoca blu, si aggira e viene vista da qualcuno ma non da altri. Ad abitarci c’è un signore d’altri tempi, Stéphane, che, come il dottor Frankenstein non si rassegna alla morte di una persona cara e cerca l’immortalità attraverso i dagherrotipi, il più antico procedimento fotografico risalente alla prima metà dell’Ottocento, consistente in un processo chimico in grado di fissare un’immagine su una lastra di rame. Una tecnica antica, le cui immagini non sono nemmeno replicabili: non fa ancora parte dell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Fissare l’immagine di una persona preservandola per sempre, immortalarla. Stéphane lo fa anche con un bambino morto, appena prima del suo funerale. Un procedimento che richiede la fissità, per il lungo tempo di esposizione necessario, in cui è impossibile rimanere immobili. Una rigidità cadaverica che si ottiene solo agganciando il modello a una specie di scheletro metallico. Ben presto Stéphane, con la sua ossessione, arriva a confondere la fotografia con la realtà, i vivi e i morti. Succederà anche a Jean e succede anche per lo spettatore.

Come ogni in racconto gotico che si rispetti, in Daguerrotype c’è anche una storia d’amore, inevitabile, che nasce tra Jean e Marie, la figlia di Stéphane. Il parallelismo tra i due è subito evidente. Entrambi in cerca di lavoro, lo trovano pur senza averne i titoli e per essere autodidatti. Marie è una sorta di Miranda che vive con il suo Prospero. La sua vita è interamente dedita alla coltivazione delle sue piante esotiche in serra, cui dedica cure spasmodiche, sono le sue bambole di una casa di vetro, che accudisce, cui pure vorrebbe garantire l’eternità. Ma Marie muore, così pare, all’improvviso cadendo dalle scale in casa. Ma la mdp di Kurosawa, i cui minimi spostamenti, piccoli svolazzi e galleggiamenti sono usati sapientemente nel corso del film a far percepire presenze spettrali, qui non si muove di un millimetro. L’origine della sua caduta rimane fuori campo. Ma non è morta, secondo Jean, oppure la sua vita prosegue come fantasma o come il prodotto della sua immaginazione, un’allucinazione, un surrogato o un dagherrotipo. Fatto sta che i due ragazzi iniziano la loro vita di coppia, lontano dal maniero, in un appartamento che diventa il loro nido d’amore. “Come se non fosse vero, ma va bene così.”
È solo facendo credere al vecchio che la figlia non ci sia più, neanche sotto forma di fantasma o dagherrotipo, che si cerca di vincere la sua ostinazione romantica a barricarsi nel maniero, che si tenta di farlo arrendere all’avanzare del cemento. Per espropriare il suo territorio in nome di una speculazione urbanistica, però “ecocompatibile”. Lo spazio, che si attraversa per arrivare alla villa, cambia drasticamente nel corso di Daguerrotype. Da enorme vuoto del cantiere, alle transenne bianche e verdi che si vedono accatastate, per arrivare ai grandi palazzoni ormai eretti, da quelle transenne delimitati. Marie, appassionata di botanica, attende la fioritura della passiflora, il fiore della passione cosiddetto perché i gesuiti ne associavano la forma alla passione di Cristo. La sua esistenza si infrange di fronte a un altare e a un maldestro tentativo di matrimonio. Lo yōkai, il fantasma giapponese si dissolve, o si rivela come un sogno, solo all’apparire del prete, davanti al pensiero cristiano.

Ancora l’acqua è l’elemento materico cardine di Kurosawa, che la mostra nel dilavamento della lastra fotografica e che ammanta Parigi di atmosfere brumose. Una “brouillard” alla Simenon che offusca la visione, anche nell’unico momento della Parigi riconoscibile, con il suo skyline e la torre Eiffel. Una visione non nitida da dipinto impressionista, secondo una concezione artistica della visione nata proprio per reazione alla fotografia. Una Senna dalle cui acque può emergere di tutto, un sommozzatore in cerca di cadaveri, ma potrebbe benissimo apparire anche un mostro di Loch Ness tra i manieri scozzesi, una creatura come i plesiosauri di Real.
Con Daguerrotype, presentato a Onde nel TFF, Kiyoshi Kurosawa aggiunge un nuovo spessore, alle sue storie di fantasmi. Storie che, come da lui dichiarato, partono da una riflessione sull’esperienza del mitoru, lo stare vicini a propri cari, al loro capezzale, tenendoli per mano, nel momento del trapasso. E in questo film ci sono due personaggi maschili a non arrendersi di fronte alla morte, così come i fantasmi stessi che, reciprocamente, non si arrendono alla vita.

Info
Il trailer di Daguerrotype.
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