DRIFT

DRIFT è l’esordio alla regia della tedesca Helena Wittmann, che si riappropria del tema del viaggio lavorando sull’estatico stupore della materia stessa di cui si compone la natura: un profluvio di acque marine, l’ondeggiare di una barca a vela sull’oceano. Cosa cambia? Cosa permane? Cos’è il tempo? Interrogativi ambiziosi per un’opera che non lascia indifferenti. Alla Settimana Internazionale della Critica 2017.

E il naufragar m’è dolce…

Due donne trascorrono un weekend sul mare del Nord. Una delle due tornerà presto dalla famiglia in Argentina, mentre l’altra cercherà di avvicinarsi all’Oceano. A bordo di una barca a vela, attraversa l’Atlantico. Il tempo abbandona i sentieri battuti e l’onda lunga la culla verso un sonno profondo. Il mare prende il controllo del racconto. Quando riappare, ha ancora il vento fra i capelli, ma il terreno sotto i suoi piedi è solido. Lei ritorna e l’altra le chiede: “Sei cambiata?”. [sinossi]

Potrà sembrare un’affermazione banale, e perfino pleonastica, ma DRIFT è davvero un film “alla deriva”. Non solo per la sua natura errabonda, con Theresa che sola sulla sua barca attraversa il mare, specchio d’acqua che non ha confini visibili e che si pone come unica immensa massa, tangibile ma non direttamente materiale, organismo pulsante sotto l’umano ma di cui l’uomo si nutre, vive, è in gran parte fatto. Per quanto possa apparire basica la narrazione dell’esordio alla regia di un lungometraggio della tedesca Helena Wittmann (e in parte è innegabile che lo sia) c’è un intero cosmo che vi si agita all’interno, un nucleo dirompente che vive e crea, per distruggere e continuare inesorabilmente a creare. La creazione. La genesi. Da lì parte e muore – o riparte – DRIFT, stordente apparizione di un immaginario altro che arricchisce una selezione, quella della Settimana Internazionale della Critica di Venezia, che ha già assestato alcuni dei colpi al cuore più diretti del palinsesto festivaliero (Les Garçons sauvages di Bertrand Mandico, The Gulf di Emre Yeksan), ma non aveva ancora avuto modo di confrontarsi con una materia così ostica, mai respingente ma anche decisa a non scendere a patti con la prassi. Ci si può sentire anche rigettati da DRIFT, perché è un film che pretende dallo spettatore non solo la necessaria attenzione, ma anche la voglia di non sapere dove si andrà a finire. Un film per dispersi, un film che disperde i suoi personaggi e sfilaccia allo stesso tempo la narrazione, per seguire un flusso che è basilare, attorno al quale si è fondata la vita sulla terra. Theresa parla di miti ancestrali dell’Oceania, e in qualche modo parla della necessità di avere un rapporto primigenio con il mondo che la circonda. Così, quando Serafina torna dai parenti in Argentina, può fare l’unica cosa che è concessa a chi ha intenzione di non lasciarsi assuefare dalla quotidiani: la dispersione.

C’è un punto di rottura, nel cuore di DRIFT, che marca il confine tra l’immaginario e l’immagine in quanto tale. Là dove Mandico prefigurava ritorni fantasmatici ed esaltanti a un cinema che non è più, che non si vuole più che sia tale, Wittmann torna ancora più indietro nel tempo: il suo film possiede l’attonito stupore di chi riprende per la prima volta qualcosa. Il mare di DRIFT è come se fosse neonato, mai ripreso prima, vergine di fronte all’occhio di una camera. C’è un potere sotterraneo che cresce di minuto in minuto, proprio quando il film sembra disperso tra i flutti, e prosegue su quella piccola imbarcazione e su quell’unica persona che la governa. O che forse da essa è governata.
La barca è a sua volta punto di osservazione, sala cinematografica per Theresa, che sa di essere sola e sa di avere di fronte a sé l’unica salvezza per l’umanità: la visione. Il lato teorico di DRIFT, come è evidente decisamente centrale, non dimentica mai la componente di puro stordimento ottico che il cinema possiede come essenza pura, e Wittmann orchestra una sinfonia di suoni e colori che una volta di più riporta agli albori, a un mondo creato lì per lì e ancora da consolidare, a un universo in fieri e forse già in disfacimento. Lunghezze d’onda… E Wavelenght di Michael Snow è l’evidente punto di riferimento di un vagare che è già ritrovarsi, di un movimento che è immoto eppure eternamente sfiancante – per Snow era l’avvicinamento, lungo tre quarti d’ora, a un’immagine di onde, qui citato in maniera esplicita nell’ultima inquadratura del film – e che è destinato a rinascere al ritorno a casa della donna.
Helena Wittmann comprende che sperimentare nel Ventunesimo Secolo significa anche sapere cos’è l’inizio, e cosa significa generare ed essere generati. Mostra il centro del nulla – o del tutto – come l’Edgar Allan Poe di Una discesa nel Maelström, ma non prevede dissoluzione. “Sei cambiata?”, è la domanda. La risposta non ha neanche bisogno di essere pronunciata.

Info
La scheda di DRIFT sul sito della SIC.
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