Intervista a Helena Wittmann
Presentato alla 32esima edizione della Settimana Internazionale della Critica, DRIFT di Helena Wittmann ragiona sul tema del viaggio, sull’origine dello sguardo e sull’estatico stupore al cospetto della natura. Abbiamo intervistato la regista per parlare del processo creativo di un film così inusuale.
Dove nasce l’idea di DRIFT?
Helena Wittmann: Beh, innanzitutto, ero interessata e affascinata dal mare, e dall’oceano, l’oceano aperto, prima di tutto come spazio. E quando abbiamo iniziato a fare delle ricerche in proposito abbiamo trovato che si affrontasse il mare sotto il profilo politico, storico, ma mai a livello percettivo. Abbiamo iniziato anche a chiedere a dei marinai, ma nemmeno loro ci davano risposte soddisfacenti. Quindi, visto che eravamo molto curiose io e la mia co-sceneggiatrice, Theresa George [anche co-protagonista del film, n.d.r.], abbiamo cominciato a indagare la questione direttamente noi.
Quanto di quello che è presente nel film era già presente in scrittura e quanto si è sviluppato nella fase delle riprese?
Helena Wittmann: Quasi tutto era già stato pensato, ad eccezione della sequenza finale. Dopo che avevamo tutto, ho scritto la scena conclusiva. Tutto il resto delle sequenze sono state sviluppate durante il processo di formazione del film. Così, andavamo sulle varie location, nell’isola o sull’oceano, e tenevamo conto di quello che vedevamo, che sentivamo e di cui parlavamo. E poi scrivevamo la scena sul posto. Quindi è stato un processo molto fluido.
Hai avuto delle difficoltà produttive? È stato difficile trovare fondi?
Helena Wittmann: Non avevamo alcun tipo di fondi, non siamo riusciti a trovarli né attraverso delle produzioni, né con dei finanziamenti destinati direttamente al cinema. Comunque io il film lo volevo fare lo stesso. Ho messo dei miei soldi, e per fortuna non avevamo bisogno di affittare delle attrezzature perché le avevo già con me, visto che faccio la direttrice della fotografia. Poi il proprietario della barca su cui abbiamo girato ci ha anche sponsorizzato, e quindi ci ha aiutato economicamente. Infine, dato che avevo studiato alle Belle Arti e che loro danno dei fondi per dei viaggi di ricerca, sono riuscita ad avere anche una parte di questi fondi.
Guardando DRIFT, con particolare riferimento alla sequenza ambientata in mare, si ha l’impressione che tu riesca a riprendere il mare come se lo vedessimo per la prima volta. Una qualità tipica del cinema delle origini che sei riuscita miracolosamente a restituire. Come hai lavorato su questo aspetto?
Helena Wittmann: È molto bello sentirvi dire queste cose. Mi era chiaro sin dall’inizio che la sequenza in mare sarebbe stata decisiva per il film e che dovevamo fare in modo che il mare diventasse per certi aspetti uno dei personaggi, facendo sì che però questa parte si potesse combinare con il resto del film. Era molto difficile abbandonare la protagonista in viaggio per concentrarsi solo sul mare, sulle onde. E poi c’era il fatto che io non ero mai stata in mare aperto prima di girare quelle riprese. Non sapevo nemmeno se le attrezzature che portavo con me sarebbero state quelle giuste, perché non sapevo in che modo avrei potuto filmare quello che volevo e che sentivo. Ma poi, già durante il secondo giorno in cui ci eravamo nell’oceano, ho deciso che la cosa giusta da fare sarebbe stata quella di girare con immagini fisse, su cavalletto, piazzandolo dunque sulla barca. In questo modo le onde che facevano ‘ballare’ la barca si ripercuotevano sulla camera, come per un unico movimento oscillatorio. E credo che questo fosse l’unico modo per restituire la forza del mare, e per dargli la caratteristica di personaggio. Ho passato ore ed ore a guardarlo e mi sono resa conto di quanto sia multiforme e di quanto possa cambiare da un momento all’altro. Quindi ho provato a restituire anche questo aspetto.
Ma in quelle scene la camera era solo su cavalletto, oppure l’avevate legata alla barca?
Helena Wittmann: All’inizio, visto che non ero abituata a una ripresa del genere, tenevo fermo il cavalletto con dei sacchi di sabbia. E anche Theresa, visto che in quei momenti non recitava, mi aiutava e lo stringeva lei, così io avevo modo di guardare l’inquadratura. Ovviamente molto dipendeva anche dalla situazione atmosferica che c’era in quel momento. Poi pian piano ci siamo abituate al mare e ai suoi movimenti e quindi sono riuscita a farcela anche da sola. Ma all’inizio avevo molto paura.
L’inquadratura finale con quell’avvicinamento in carrello alla foto del mare attaccata al vetro riporta inevitabilmente alla mente Wavelenght di Michael Snow (1967), in cui si ritrova proprio lo stesso movimento. E visto che poi il film di Snow è un film che parla di lunghezza d’onda, di modulazioni, questo riferimento è voluto, cioè c’è da parte tua la volontà di riappropriarti di un certo tipo di sperimentazione oppure no?
Helena Wittmann: Naturalmente è assolutamente voluto il riferimento, anche se non è indispensabile saperlo per percepire la scena finale. È una bella storia raccontare come questa scena finale sia arrivata, perché a lungo io non avevo idea di come far finire il film. Sentivo però che ci dovesse essere una fine, una vera conclusione. Quindi mi trovavo nello studio dove avevamo finito di montare il film, e stavamo ascoltando della musica. E non so perché, ho chiesto a Theresa di mettere “Baby” di Donnie & Joe Emerson, perché era qualcosa che in quel momento avevo davvero voglia di sentire. E poi le ho chiesto di metterla di nuovo, e poi ancora e ancora. A quel punto avevo la scena e l’ho detto a Theresa. E subito dopo ho rivisto Wavelenght di Michael Snow. Ho immaginato quindi questa scena su skype con Josephine che, alla fine del dialogo, mette la canzone. Amo Wavelenght, lo ritengo molto importante per me, come molti altri film sperimentali, in particolare per l’uso che fa delle lunghezze d’onda e per il gioco che fa proprio con le onde del mare. E penso che “Baby”, per come è strutturata la canzone, così ondulatoria dal punto di vista musicale, fosse il modo migliore per commentare questo finale.